di Luigi Scardigli
PISTOIA. Per riuscire a manovrare le maschere più in alto, come quella del Preside dell’Istituto superiore di Gloucester o di uno dei padri delle ragazze minorenni iscritte in quel plesso scolastico, ma con le idee chiarissime, quasi autarchiche, spesso si è dovuta mettere in punta dei piedi. Nemmeno l’estensione muscolare ne ha condizionato l’umore, originalissimo, o il vocalismo appropriato a quei dodici volti cerei, a quelle dodici teste mozze. Marta Cuscunà, in scena, l’altra sera, alla villa Scornio con il suo Sorry, boys, altro appuntamento di Teatri di Confine, programmazione estiva dell’Atp di Pistoia, è un’impressionante macchina da guerra. La storia dell’idea di comunità di sole donne con i loro diciotto marmocchi al seguito però, Marta Cuscunà ha deciso di farla raccontare a cinque padri involontari anch’essi marmocchi come le loro compagne e ad alcuni grandi, che di questa scelta e di questa vicenda sono protagonisti assoluti, ma inconsapevoli.
Le ragazze ci sono, certo, eccome, ma compaiono solo come spartiacque tra grandi indignati e giovani sconvolti sul display di un enorme telefono cellulare, sul quale si scambiano messaggi, dubbiosi e timorosi, ma alla fine decisi, anche sognanti e praticamente irremovibili. Marta Cuscunà è la burattinaia che ha messo in piedi il teatrino, che aziona le barre metalliche appese alle giugulari delle teste mozze, che dà voce ad ognuno di loro: i cinque ragazzi parlano della discutibilissima scelta delle loro rispettive fidanzate gustando un porno in tivvù e scambiandosi le impressioni sulle loro più recenti imprese erotiche; i dodici grandi invece si ritrovano all’interno della scuola per decidere cosa fare, cercando soprattutto di riuscire ad allontanare dalla struttura e dalle loro vite turbate i giornalisti, che invece arrivano a flotte da ogni dove. Ma nessuno di loro, adulti (ir)responsabili e giovani risucchiati da una spirale più grande dei loro infantilismi, riesce ad essere plausibile: arrancano tutti, cercando vie e risposte che nulla hanno a che vedere con il desiderio di questa piccola e giovanissima comunità di giovanissime donne che ha deciso di sperimentare l’idea di autogestione materna, senza grandi e senza maschi, dopo l’ennesima mattanza femminicida che si è abbattuta sulla zona e della quale l’intera comunità, oltre agli autori materiali, ne è più o meno direttamente responsabile. Marta Cuscunà è lì dietro, alle spalle della grata dalla quale spuntano le dodici teste mozze: c’è da seguire un copione, un canovaccio, costellato di piccoli interventi. La voce stridula di una mamma che ha annichilito il marito che ormai non conta più un cazzo; quella meno decisa e stentorea del solito del Preside, che ha il terrore di farsi risucchiare dalla spirale dello scandalo e della denuncia; quella astuta della dottoressa, che ha inizialmente sorriso e fomentato l’idea delle studentesse senza valutarne le dimensioni della reazione e che ora suggerisce infingardi stratagemmi. E poi i cinque ragazzi, con tanto di felpe tirate sul capo o cappellini con la visiera laterale o posteriore, che parlano lo slang della gioventù, che si riconoscono nei loro eroi televisivi e cinematografici e che soprattutto non credono alle minacce delle loro fidanzate fino a quando i rispettivi test di gravidanza non ne sentenziano le imminenti maternità. Una società violenta, maschista, incapace di gestire le istanze e le necessità delle donne, che tramanda, da generazioni, ai propri figli, quei piccoli e grandi controsensi che con il tempo si adeguano, si irrobustiscono, diventano legge, non scritta, certo, ma subdolamente tacita. Marta Cuscunà è tutto questo insieme, originaria di una terra di grandi contraddizioni, Monfalcone, dove per il progresso e per la ricchezza in troppi hanno dovuto pagare il fio altissimo del mesotelioma da amianto, senza però che se ne parlasse in giro. E' cresciuta così, Marta Cuscunà, per fortuna in teatro, dove certe volte è costretta a mettersi in punta dei piedi, però, perché alle teste mozze, lassù in alto, non ci arriverebbe.
