di Luigi Scardigli

FIRENZE. Shakespeare non ha bisogno di ulteriori approfondimenti: è stato, e lo sarà per sempre, uno degli autori più impegnati e complessi del panorama drammaturgico e filosofico della scena cosmica. Lo si può mettere alla berlina, ci si può giocare, lo si può decomporre in mille rivoli teatrali, ma non lo si può interpretare, decifrare, soprattutto entrando in unica sintonia vocale con il testo, cervellotico alla nascita, dunque, difficilmente aggravabile, e farsi guidare, in mi minore (se così lo staff ha deciso di accordarsi), per tutta la durata del testo. Quelli dell’Archivio Zeta e Elsinor, che ieri sera, in prima nazionale, hanno portato in scena al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, a Firenze, il loro Macbeth - con il tempo a sostituire l’inesistenza del secondo elemento del dilemma -, dissentiranno profondamente.
Ma senza permetterci il lusso di erigerci a censori (non lo siamo e non abbiamo alcuna intenzione, né velleità, di volerlo diventare), la rappresentazione, inutilmente incupita da una scenografia punk che riproduce fedelmente il grigiore scozzese nel basso Medioevo e scandagliata in un controllo spasmodico dei movimenti dell’intero cast, ci è parsa pesante e letalmente ingombrante, come una serie di ricami intorno ad una tela facilmente distinguibile anche se riposta in una soffitta impolverata e accatastata con altre centinaia di nobili dipinti. Ci saremmo potuti fermare sul palco dell’ex palestra della periferia fiorentina al termine della rappresentazione, visto che gli autori e i protagonisti si sono offerti al fuoco delle domande e delle obbiezioni del pubblico, ma non avevamo voglia di svendere le nostre contrarietà, né tanto meno di convincerli della pesantezza del loro lavoro. Le pensiamo, lo diciamo e lo scriviamo con la coscienza della sicurezza di avere, come interlocutori, oltre che i lettori del Portale, anche e soprattutto gli artefici di questa rivisitazione, attori preparati, poliformi, elastici, già visti e applauditi in altre opere e impegni: ci riferiamo alla regìa di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni (entrambi nella duplice veste di direttori e interpreti) e a quelli che ci hanno messo faccia, corpo e anima (in ordine afabetico), come Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Ciro Masella, Giuditta Mingucci e Alfredo Puccetti. Perché ci è parso un esercizio, una prova, una dimostrazione di padronanza del diaframma e delle modulazioni facciali, una lezione di tenuta, un’ossequiosa riverenza spazio-temporale, un’impeccabile e spettacolare realizzazione ma siglata nella porta sbagliata. Shakespeare e il suo Macbeth, come il resto di tutta la sua produzione, è un autore indispensabile per la formazione non solo delle gente che va in scena, ma anche e soprattutto per quelli che non hanno questa fortuna e che dovrebbero cercare di compensare la claudicanza artistica vestendo puntualmente gli abiti degli spettatori, così preparati e attenti da suggerire, alle prove generali, di evitare al magnifico Oscar l’inutile e dannoso utilizzo, un tormento scenico culminato in un pianto commovente. E pericoloso, tra l'altro, perché se tra il pubblico avesse trovato posto un animalista, ci sarebbe stato da parlarne (e) scrivere.
