di Luigi Scardigli

FIRENZE. Qualcuno, ieri, alla prima stagionale del Teatro di Rifredi, è uscito dalla platea con gli occhi lucidi; altri, addirittura piangendo, senza il minimo ritegno. Lo abbiamo fatto anche noi, ringraziando il cielo, ma soprattutto ringraziando Eric-Emmanuel Schmitt, che ha portato in scena, adattato e ridotto da Anne Bourgeois, il suo capolavoro letterario, Monsieur Ibrahim et le fleurs du Coran. Che è una storia d’Amore e di Lentezza e le maiuscole non sono refusi. Un racconto sussurrato in francese e tradotto in italiano, con scenografica semplicità, sulle due ali della parete prossime al palcoscenico. I prof. fiorentini di transalpino, l’occasione, non se la volevano assolutamente perdere e hanno fortunatamente coinvolto, nel loro delirio didattico, anche molti loro studenti, che al termine dello spettacolo sono sicuramente usciti più grandi, più ricchi. E felici.

 

Perché Momo, il protagonista, è un signore ebreo che vive a Parigi, in Rue Bleue, poco distante da via del Paradiso, un quartiere a luci rosse, dove le puttane, spesso, nonostante abbiano tutte qualcosa della divina Brigitte Bardot, si accontentano di un sorriso, o di un orsacchiotto di peluche: gestisce una drogheria, ereditata non dai genitori, ma dal suo amico Ibrahim, un musulmano Sufi, che lo accoglie e lo adotta adolescente; la mamma è scappata appena è nato e il padre non riesce a fare il padre: i suoi genitori sono stati deportati nei campi di concentramento nazista e lui non sa perdonarsi di essere riuscito a salvarsi. Eric-Emmanuel Schmitt incarna contemporaneamente tutti i suoi personaggi; nonostante la stazza, si muove con leggiadria ed eleganza, riuscendo a dare alla sua lingua, franco-belga, quella musicalità che non ha bisogno di traduzione per arrivare diritta al cuore, oltre che alle coscienze. E’ una storia importante, soprattutto di questi tempi, dove l’intolleranza è in agguato e dove per difenderci dall’Altro che avanza ricorriamo, con frenetica e psicotica frequenza, a falsi stilemi, che non contraddistinguono affatto le nostre case, le nostre famiglie, le nostre comunità. E’ una storia importante perché è una storia dei tempi nostri, che sono quelli subito successivi a quelli del colera e che precederanno altre epidemie, che avranno altri nomi, che si manifesteranno sotto altri effetti, ma che non riusciranno a scalfire le insormontabili difese dell’Amore, che si costruisce con calma, nel tempo, ma che riesce a stabilizzarsi, a crescere e a diffondersi in qualsiasi contesto, come la Ginestra leopardiana. E’ una storia importante che occorre portare nelle scuole; o meglio: è una storia importante alla quale gli studenti è bene che assistano, perché è un bel bignami di propositi fondamentali, adattabili a qualsiasi circostanza e trasferibili a qualsiasi latitudine. Una storia importante che si può raccontare nella lingua del suo autore, il francese, ma che si può tradurre in un qualsiasi altro idioma e ottenere gli stessi meravigliosi risultati: quelli di veder uscire dai teatri, a fine rappresentazione, la gente in lacrime, perché lo sappiamo tutti dove abiti l’Amore, ma nessuno di noi ha quasi mai il coraggio e la volontà di andarci.

 

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