di Luigi Scardigli

FIRENZE. Irriverenti, geniali, provocatori, scurrili, blasfemi. Sono due drag queen pentite, ricordano Charlie Chaplin e Michael Jackson, Ridolini e Buster Keaton, Antonio Albanese e Pina Bausch, Jacques Tati e Roberto Bolle, Totò e Lola, quella che corre, ma anche il Filippo Timi di Bambole, o i neologismi dialettali delle sorelle Macaluso, di Emma Dante. Insomma, straordinari. Vederli all’opera, Alfonso Barón e Luciano Rosso, è un piacere assoluto: rinfrancano lo spirito, allontano i pregiudizi, offrono su un vassoio, affatto prezioso, la loro danza, che è la mortificazione di quella che si ha in testa da bambini, divertono molto e si divertono da pazzi, rivendicando, con elegante orgoglio, il diritto all’omosessualità. Si amano, si cercano, si trovano e abbattono, in più di una circostanza, le elementari leggi della fisica e dell’aerodinamica. Sono in Italia per la prima volta; a Firenze, per l’esattezza, al teatro di Rifredi, nel dettaglio urbano, a dar spettacolo.

 

Ci saranno anche stasera e poi domani, domenica 23 ottobre, per replicare il loro Un poyo rojo, per la regia di Hermes Gaido, un’acrobatica performance alla quale abbiamo avuto il piacere e l’onore di assistere ieri, in prima assoluta. Sul palco, a far dar corredo alla loro devastante forza e grazia ginnica, un armadietto a tre ante, in ferro battuto, uno di quelli che popolano gli spogliatoi delle palestre più scalcinate. Dentro hanno riposto le scarpe da ginnastica, bianche per l’uno e rosse per l’altro, le ginocchiere cromaticamente intonate, i calzini e una radio, un radione, con un’antenna retrattile che sarà croce e delizia per entrambi. La lunghezza d’onda è quella in Fm: ogni millimetro, un canale: c’è musica, ballabile, quella che si rispetta e viene mandata in onda nelle emittenti dopo le 21, ma anche dibattiti, politici e religiosi, commenti sportivi, suoni indecifrabili di canali con scarsi ripetitori. Sembra che vogliano dar vita ad un combattimento, tra galletti, come si vedono nei filmati, di pessima qualità, ripresi e rubati in America latina; in quel pollaio, come in tutti, del resto, c’è posto per uno solo: l’altro, deve andarsene, o morire. Ah, no, ci siamo sbagliati. Si stanno preparando ad una gara acrobatica di dissing, o disrespecting, se preferite: quando si esibisce l’uno, l’altro osserva con aria di sfida le evoluzioni dell’avversario; poi tocca lui e il nemico, farà altrettanto. Ma no, ma cosa avevamo capito: stanno cinguettando, è così che si corteggiano, Alfonso e Luciano, per stabilire, almeno per quella sera, chi avrà il sopravvento. Hanno fisici dipinti, una muscolatura impeccabile, esemplarmente equilibrata e le articolazioni si flettono alla pari e in corrispondenza con le fasce dei bicipiti, di grandezza variabile. Le scapole sono alettoni aerodinamici, che pare consentano loro di deltaplanare senza apparecchiature. Luciano è il buffone della coppia: è quello che la sera non andrebbe mai a dormire. Alfonso sta molto attento ai dettagli, ma senza l’irriverenza del suo compagno offrirebbe uno spettacolo meno avvincente. Si completano, si sorreggono, sono le due fasce cardiache di un cuore solo e battono ad una ritmia che ad altri segnerebbe il trapasso. Se potessero, vorrebbero deformarsi, entrare, vicendevolmente, l’uno nel corpo dell’altro. Ogni tanto ci provano, passando dalla bocca: la scusa è per baciarsi, ma in verità stanno cercando la giusta alchimia per intrufolarsi nell’anima del compagno. Quando succede, sul palco, le luci si abbassano un po’: si vergognano, forse. Macché, è tutto preparato, è tutto spettacolo. Prima di salutare il pubblico e raccogliere un’assordante caterva di applausi, Alfonso si accomoda nella prima fila della platea e lascia il palco a Luciano, che si congeda sulle note di Parole, parole, parole: quando è il turno di Mina si fa civettuola; quando fraseggia Alberto Lupo, offre l’altra guancia, quella della virilità, tutta da ridere.

 

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