di Luigi Scardigli
PISTOIA. Non tutto quello che dicono arriva direttamente a destinazione. Parlano in francese e nonostante la lingua transalpina sia più familiare di molti altri idiomi europei, qualcosa, di Exil, non può che sfuggire. Ma non la sostanza, la poesia, il dolore, la visione futuristica, lo sguardo al passato, la solitudine, lo sconforto, l’idea di fratellanza. Anzi. Prima della rappresentazione, nella sala spettacoli del Funaro, a Pistoia, un’addetta ai lavori si offre, con dovizia e grazia, a tradurre, simultaneamente, quello che Sonia Wieder-Atherton, la regista-violoncellista (coadiuvata, nella costruzione dello spettacolo, da Sarah Koné), ha innescato nella sua miscela. Ci sono le persecuzioni storiche e bibliche, quelle sofferte realmente dai popoli e quelle dipinte sulle arcate dei battisteri, ma non sono delimitate, circoscritte, identificate: non siamo in nessun posto del mondo dove si calpestano diritti e sagome. Siamo. E basta, purtroppo.

C’è solo la sofferenza di masse enormi di uomini, donne e bambini fuggiti da una condizione inumana, in cerca di una terra - più che di un tetto per ripararsi dal cielo -, sulla quale erigere la propria comunità, con le sue regole di convivenza. Senza la premessa dello spettacolo tradotta e spiegata, comunque, il risultato sarebbe stato lo stesso: siamo nel campo, pericolosissimo, delle emozioni, già sperimentato al Funaro con il teatro de los sentidos, dove la parola, che ha il suo peso e la sua unicità, non solo a teatro, perde letteralmente il suo significato e la sua importanza. Al suo posto ci sono gli odori di pane e vendetta, le ombre, i suoni confusi di sottofondo, che spesso, a volte anche in modo ingombrante, prendono il sopravvento e i corpi, miniaturizzati solo anagraficamente, degli otto protagonisti, la Compagnia Sans Père, sei ragazze e due ragazzi che si prendono tutto lo spazio loro concesso e che rispediscono al mittente, che è lo spettatore, tutta la loro ansia, la loro gioia di vivere. Fatta di movimenti elementari, ma precisi oltre ogni ragionevole imperfezione, di forze contrapposte, di sessualità incerte, di cori che sgorgano dalla terra, una di quelle martoriate dal dolore, che loro, probabilmente, non hanno conosciuto, ma che hanno perfettamente imparato a distinguere durante questa poderosa alfabetizzazione della memoria come fardello da trasmettere. Ai lati dal palco, il violoncello della regista, costipata da una forma influenzale che non è riuscita a debilitarne l’energia, e il piano di Franck Krawczyk, che intonano, durante l’arco della rappresentazione, Bach, Purcell, Nina Simone, Stravinsky, Ravel e altri, distanti anni luce nella loro musicalità, ma comprimibili in un unico grido di dolore. Nel mezzo, vestiti confusamente di nero, i giovanissimi attori, che sfoggiano una padronanza della scena, mista a doti canore di invidiabile professionalità, degna delle scuole più avanzate di recitazione. Sono tutti lì, al Funaro, da una settimana: hanno goduto di questa specifica residenza artistica proprio per riuscire a partorire, al termine di questa breve ma intensa gestazione, lo spettacolo. Sono questi giovani otto sopravvissuti la voce della storia che racconta, che si tramanda e che invita, prima che a non dimenticare, a non sbagliare di nuovo. Lo fanno interrogando l’interlocutore, interrogandosi; lo fanno leggendo appunti che trovano, sparsi, come foglie secche cadute in un autunno qualsiasi chissà da quale albero, sul piano del palco; intonano il loro dolore cantando e controcantando a cappella (Esmeralda Sciascia può dormire tranquilla), in un’unica atmosfera ricca di significati, che trasuda disperazione e speranza, sensazioni che stridono, fino all’inverosimile, con i corpi, sottili e giovani, dei protagonisti, così immersi in questa esperienza che sembrano veramente scampati e scappati dalle atrocità.
