di Luigi Scardigli

FIRENZE. Il marchio di fabbrica è autentico, anche se in alcuni momenti non originalissimo. Ma che Ubu roi sia l’ennesima scommessa di Roberto Latini e del suo Fortebraccio Teatro, si capisce dalle prime immagini, quelle mandate in onda ieri, al teatro di Rifredi (si replica tutte le sere fino a sabato prossimo, 19 novembre: utile vederlo), dove il regista/performer/attore ha dato vita al riadattamento della vecchia favola di Alfred Jarry, un’allucinazione shakespeariana che rimbalza tra Pirandello e Beckett e nella quale, oltre a un sacco di cose del proprio forbito background, ha voluto mettercene delle nuove. Che sono poi vecchie, ma che rinascono puntualmente sotto altre spoglie, riconoscendosi tra loro e offrendo le generalità al pubblico solo durante il tragitto scenico.

Perché il marchio di fabbrica del Re Ubu di Roberto Latini è totale e lo è solo e soltanto incastonato in quel cosmo trittico che non può esimersi dal confidare nei suoni distorti di Gianluca Misti e nelle luci (ieri sera leggermente decentrate) di Max Mugnai. Il coito, a momenti epico, struggente, cinematografico, si materializza progressivamente, anche se soffre di un preliminare forse un po’ troppo laborioso, lungo e monocorde, capace di intiepidire escort di lusso e mandrilli pieni di viagra, con il contributo, essenziale, del resto degli addetti ai lavori, a partire dall’idolo di casa-Rifredi, Ciro Masella - una regina isterica, in meno pausa, civettuola, anche se poco piacente e corrosa dalla secolare avidità del potere - e gli altri in scena: Savino Paparella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Francesco Pennacchia, Guido Feruglio e Fabiana Gabanini. Re Venceslao e il suo regno sono in pericolo: su di loro volteggia l’ombra di potere di Re Ubu, accompagnato e istigato in questa marcetta trionfale verso la conquista di un impero dell’Est dalla sua chiassosa consorte. A raccontarcelo è uno speaker infiltrato, Pinocchio, un pinocchio resuscitato da Carmelo Bene a Collodi, che sembra integrarsi con disinvoltura all’interno della macchinazione scenica, una rilettura amletiana passando da Kubrik a Totò, con un omaggio, indispensabile, a De Filippo e uno più velato e meno urgente alla commedia italiana degli anni ’70, supportata dalla solita ricerca acustica dei linguaggi, con Stratos e Ceccon a farla da padroni e quella puntina del giradischi che qualcuno ha dimenticato di sollevare nonostante il 33 giri sia da tempo terminato. E’ colpa, probabilmente, di un dj che vive nelle galassie e che si è irrimediabilmente addormentato nella propria postazione, ma che continua a garantire l’accesso agli utenti nella stanza iperbarica premendo, macchinosamente, il pulsante, un suono che ci ricorda la fine della corsa sulle macchinine a scontro alle giostre. Roberto Latini si diverte a mischiare le carte in tavola, forte, senza essere presuntuoso, di essere in grado, in un qualsiasi momento, di riavvolgere tutti i fili sul palco senza correre il rischio di confonderli tra loro, anche a costo di non essere capito, ma non frainteso. L'alea, percettiva e percepita, costantemente tangibile e in grado, in un qualsiasi momento della rappresentazione, di prendere il sopravvento, è che mettendo in pentola una moltitudine di ingredienti, anche prima della cottura ideale, il sapore non sia più identificabile e che dopo aver desinato, in bocca, non risalga alcun aroma. Ma è anche vero che il teatro sperimentale si muove lungo queste modulazioni di frequenza, in una rete dove convivono, nello spazio brevissimo di millimetrici megahertz, una miriade di stazioni radio e non è inusuale, subito dopo aver svoltato in direzione ovest-nordovest, perdere il nitore della canzone che stavano canticchiando in macchina con tutta la famiglia in viaggio verso le vacanze. E dispiacersene. Per poi rincuorarsi immediatamente, un attimo dopo, perché nella nuova stazione captata canta Buscaglione; no, Mina; ma che dici, è Sinatra: sono i Pink Floyd papà, è una pubblicità.

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