di Luigi Scardigli

FIRENZE. La cosa straordinaria di Benvenuti in casa Gori, questo cult teatrale-cinematografico, anzi, cinematografico-teatrale, di questo cult generazionale, è la perfetta, meticolosa, straordinaria individuazione di ogni singolo personaggio che offre il meglio e il peggio di sé al pranzo di Natale. Ma sul palco del teatro di Rifredi (da giovedì 24 novembre fino a stasera, domenica 27) non ci sono Libero, Bruna, Lapo, nonno Annibale, Adele, Gino, Sandra, Luciano, i giovani fidanzati Danilo e Cinzia e la piccolissima Samantha (l’acca è d’uopo); o meglio, ci sono tutti, ma è solo lui, Alessandro Benvenuti, che ha scritto la commedia con Ugo Chiti e che ne è il regista, che indossa, prima che gli abiti, i loro umori. Certo, la resa cinematografica (uscì nel 1990) fu memorabile, anche perché, per proiettarlo sul grande schermo, il saggio dei tre ex Giancattivi si avvalse, oltre che dell’altro pezzo da novanta, Francesco Nuti (che lo produsse) della femmina del trio, Athina Cenci e di un pool di toscanacci davvero notevole: Carlo Monni, Ilaria Occhini, Novello Novelli, Giorgio Picchianti e un già impresentabile Massimo Ceccherini.

È il 25 dicembre del 1986 e siamo a Firenze: certo, si potrebbe essere in un qualsiasi altro condominio pseudo metropolitano d’Italia, ma a Firenze, di casa Gori, ce ne sono più che altrove e non solo per il familiare cognome granducale. Una città blasfema, mangiapreti, ma almeno a Natale, se non si ha avuto il tempo di andare a Messa, almeno in Tv, l’Urbi et Orbi, va preso. E se è vero che anche la scenografia cinematografica fu povera di effetti, ma ricca di sit, a teatro, i marchingegni si riducono ulteriormente, al di sotto di ogni ragionevole essenzialità, con qualche sfondo luminoso e un passeggino, posto alla sinistra dell’onemanshow, dove si ipotizza stia la piccola Samantha, che ha due anni e nonostante chiunque in casa Gori la istighi a dire crostini, dice solo otto; anzi, alla fine del pranzo, in verità, dirà anche merda, e non per scaramanzia. Fa tutto lui, Alessandro Benvenuti, senza spostarsi un metro da quella piccola circonferenza idealmente disegnata sul palcoscenico. D’accordo, a Firenze, il tutto esaurito si giustifica obbligatoriamente: chiunque, in sala, non solo ieri, alla terza replica, ma anche all’esordio, giovedì, al bis di venerdì e alla chiusura in programma stasera, avrà almeno una volta trascorso e consumato un pranzo di Natale in una casa Gori. Perché è una famiglia idealtipica, la famiglia Gori, quella dipinta da Benvenuti e Chiti, una famiglia-modello-pilota, nella quale vivono e convivono tutte le aspirazioni-frustrazioni epocali: una mamma malconcia, un marito furioso ma inconcludente, un suocero impossibile, ma indispensabile per le sue pensioni e l’assegno di accompagnamento; un figlio disastroso, che si sveglia solo la domenica, per andare allo stadio a fare l’ultrà, una nuora silente e insignificante, una sorella minore più bella e fortunata e l’inaspettato e inaspettabile epilogo, un vizio tenuto sottocoperta, che si manifesta in tutta la sua tragicomicità nella maniera più rocambolesca. Tutto affidato a lui, ad Alessandro Benvenuti, alla sua capacità metamorfica, al suo inimitabile spirito di riadattamento, alla sua camaleontica personalità scenica, alle modulate tonalità del suo diaframma, alla puntigliosa e supersonica velocità con la quale si spoglia abbandonando abiti e umori di un personaggio per indossare quelli dell’invitato che gli siede accanto. Ieri sera è stata la terza volta che ci siamo presi la briga di andare a vederlo, Benvenuti in casa Gori. Ma se tra qualche anno, seppur indimenticabile, Alessandro Benvenuti dovesse riproporlo, siamo convinti che non ce lo perderemmo, scrivendo, probabilmente, una recensione quasi uguale a questa, armata forse di qualche aggettivo in più: perché il mattatore, più vecchio, riuscirebbe a meravigliarci, più vecchi anche noi, ancora.

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