di Alessandra Mr D'Agostino

MILANO. Sul citofono non c'è traccia. E intorno non ci sono che altri sguardi. Di chi, come noi, attende. La scomodità è il punto di partenza. Mancano una manciata di minuti. E troviamo il modo per entrare dal kafkiano cancello metallico. E una volta oltre, attendere, ancora. È questo il prologo è de La Mala, rappresentata nei giorni scorsi a Milano, allo Spazio Nuovo, per la regia di Lena Rumy e lo potenza espressiva e rappresentativa di Annalisa Falché. La scomodità è il punto di partenza. La porta a vetri si apre. Una giovane donna, dai lineamenti delicati ci chiama. Ci spunta da una lista. Così scendiamo la scala stretta. La scomodità è il punto di partenza. Di fronte a noi la prima creatura scenica. Un uomo solido. Fermo. Seduto come sfinge. Con tanti La Vita cartacei, cuciti al pull blu.

E però noi dobbiamo passare oltre. Perché lo spazio sacro, che ci attende, è ancora più in là. La scomodità è il punto di partenza. La stanza è grande, con poche sedie spartane, ma collocate con cura. E dei pallet, a delimitare lo spazio scenico. La scomodità è il punto dipartenza. Un'altra giovane donna entra. Seducente e schiva. Si cambia accanto alla scena. Si mostra, senza appariscenza, senza dire. La scomodità è il punto di partenza. Ce l'ho di fronte, proprio ora. Come fosse allora. Con il leggìo. E le perle azzurre. E un'infradito sì. E una no. Infine, il buio. La scomodità è il punto di partenza. Ci sono dei pesci morti. Quelli che ha disposto sui pallet davanti a una porzione di pubblico. Eccolo lì, bello e palese. L'inizio del disagio. La scomodità è il punto di partenza. C'è un piccolo ritornello. Ammiccante e dolcissimo. Verso lo sguardo di chi, incuriosito, osserva, ricambiato. E da quel ritornello si snodano parole. Crude. Dolorose. Carnali. Dolcissime. Così come pure dolcissimo è il suono della piccola armonica. Che quel corpo, teso nello spasmo del ricordo, intervalla. La scomodità è il punto di partenza. Osserva il pubblico, lei. E non ha paura. Neanche delle reazioni. Offre memoria, lei. E pesce. E profumo di pino. Che netta l'aria. E odor di fumo. La scomodità è il punto di partenza. Offre coraggio. Quel volto. E quel corpo. Instancabile. Pregno di cose. Con i vestiti sparsi ovunque. Che quel corpo rivestono. Uno sopra l'altro. Maldestri. Vestiti di altri. Di ignoti. Di morti. Cosa importa. Uno sopra l'altro. Come carichi insopportabili. La scomodità è il punto di partenza. Quel volto, ripeto. Quel volto lavato nell'acqua putrida di olezzo. Quel volto ripulito dalla stoffa di una mutanda. Quel volto ti guarda. E ti abbraccia. E ti chiede qualcosa che non ripeterò. Per non turbare il pudore sfrontato di quell'insolita domanda. La scomodità è il punto di partenza. Il ritornello, di nuovo. Ma diverso. Più struggente e disincantato. Con il buio, infine. La scomodità è il punto di partenza, me l'hanno insegnato da che ero bambina. Ché le spalle al muro ti spingono a reagire. Ché il disagio ti spinge a spostare il punto di vista. Così è stato per me. Da sempre. Così è stato nella sera della Mala. Quel corpo violentato dal ricordo ha spostato il baricentro di ogni sicurezza. Tanto che, fuori da lì, mi sono chiesta se fosse giusto uccidere. E, subito dopo, se fosse giusto chiedersi se è giusto. Perché, chi siamo noi. Per dire cose. Sul dolore. E sulla sventura. E sul peccato. Perché, chi siamo noi. Per indignarci. E dire. Piuttosto che, invece, tacere. E chiudere gli occhi. E provare compassione. Invece.

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