di Luigi Scardigli

PISTOIA. Audace e rispettoso. Violento e tenero. Rivoluzionario e fedelissimo; ateo, fino alla blasfemia e deciso a recidere, ora e per sempre, quel legame pernicioso con la tradizione, utilizzando, per questa meravigliosa trasposizione di Natale in casa Cupiello, richiami letterari (Pirandello), filosofici (Kafka) e pittorici (il Barocco, napoletano, naturalmente) perfettamente incastonati nel dipinto originario, quello scritto nel 1931 da Eduardo De Filippo e che un suo successore, Antonio Latella, circa ottant’anni dopo, ha riproposto con tassonomica precisione da ieri, 9 dicembre, al teatro Manzoni di Pistoia, fino alla seconda e ultima replica pomeridiana, quella in programma domani. Consegnando a donna Concetta le redini della sopravvivenza umana e prendendosi però ogni licenza (im)possibile e (in)immaginabile, fino alle contaminazioni liriche di Rossini e quelle trip hop, riconducibili a Mezzanine, dei Massive Attack, fino all’inaspettabile epilogo parricida, unico modo, questo, per come liberare il padre colpito da ictus dai deliri agonizzanti della malattia e liberarsi, una volta per tutte, dallo spettro dell’antichità del presepe, consegnare il pater familias alla reincarnazione rituale nella sua sorda e cieca illusione e dare ai Cupiello la speranza di poter sperare.

La devozione all’autore è sistematica, scandita, a piè sospinto, dal riff originale di Eduardo, che si appresta a rinnovare, come ogni anno, il presepe. La stella cometa, enorme, ingombrante, illuminata dal giallo dei crisantemi che la compongono interamente, non segna la strada verso la grotta, ma è il presagio dell’epilogo, l’anticipazione funerea; come il testo, riproposto nella sua visione ancestrale, nel momento dell’ideazione, della scrittura, con tanto di interspazi scanditi dal battito ritmico del bastone di Luca Cupiello e le altrettanto ritmate fitte lancinanti sofferte da tutti i protagonisti ad ogni accento, sia acuto che grave. Sul palco, allestito dai progetti drammaturgici di Linda Dalisi, dalle scene di Simone Mannino e Sonia D’Amico, con i costumi disegnati da Fabio Sonnino, le musiche di Franco Visioli, le luci di Simone De Angelis e dalle collaborazioni registiche di Brunella Giolivo, Irene Di Lelio e Michele Mele, un cast mostruoso, guidato dal portento di Francesco Manetti (Luca Cupiello), che esce ed entra dagli abiti di Eduardo con spavalda velocità vocale e dalla sconfinata Monica Piseddu (Concetta), emaciata più che mai, ma armata da un’impronosticabile forza erculea, quella affidata a Madre Coraggio e che le consente di trascinare, lungo il palco della vita, la teca della famiglia, un mega scrigno di vetro nel quale trovano rifugio gli animali della grotta, dell’aia e dell’orto. Con, a seguire, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca e Alessandra Borgia, che sono Tommasino, detto Nennillo, Ninuccia, Nicola, Pasqualino, Raffaele, Vittorio Elia, il medico, Carmela, Rita e Maria. Un’opera maestosa, coraggiosa fino alla sfrontatezza, dove oltre ai protagonisti iconoclastici trovano spazio anche figure ambigue e indefinite, facilmente rintracciabili nei bassi; un'opera capace però di lasciare intatto e inalterato il tracciato originario, assorbendolo in una rilettura che riesce, finalmente, a non essere eduardiana nei suoi tratti più riconoscibili, come lo sfrontato lessico partenopeo, le scenografie volutamente povere e misere della casa antonomastica di questo Natale e i costumi d'epoca, ma regalando al dramma, sempre più attuale e sempre meno omettibile, la sua vena internazionale, globalizzando l’indispensabilità per una una rivisitazione laica di una festività che continua a essere celebrata solo nell’immaginario collettivo e dunque cupiellano del presepe, nel quale trova finalmente posto, nella mangiatoia, un cadavere riconoscibile, rappresentativo.

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