di Luigi Scardigli

PRATO. Speriamo che con il tempo, i timori di Francesca Taverni, la madre superiora dello spettacolo Sister Act, in scena la Politeama di Prato anche oggi, 1 dicembre, alle 16, si dissolvano e anche in questo paese (la p è piccola e così resterà ancora per lungo tempo, purtroppo), il musical assuma una sua specifica e considerata identità e non venga considerato come l’ancora di salvataggio del teatro e della musica nel loro amplesso. Perché l’intero cast artistico della trasposizione teatrale del successo oceanico del film del 1992 non ha certo da invidiare nulla. A nessuno. Belia Martin, ad esempio, affascinante creola madrilena, non fa mai rimpiangere le doti canore e recitative di Woopi Goldberg, la svitata in abito da suora nella pellicola di Emile Ardolino, così come nessuno dei protagonisti del musical assoldati alla causa artistica da uno dei più esperti e lungimiranti registi del settore, Saverio Marconi.

La storia della commedia, prodotta dalla Touchstone Picture, scritta a quattro mani da Cheri e Bill Steinkellner e musicata da un vate come Alan Menken, è sin troppo nota; al di là dell’incasso stratosferico al botteghino, Sister Act è uno dei film più gettonati e teletrasmessi da ogni emittente nazionale e privata, a partire dal 1995, quando una delle tre ammiraglie Finivest decise di mandarlo in onda, riscuotendo un successo di share oltre ogni più rosea previsione d’ascolto. Deloris Van Cartier, vocalis di un trio soul, è l’amante di un produttore che è anche un boss della mafia americana; testimone oculare di un omicidio e stizzita perché il suo uomo non decide di mollare la moglie, si convince a denunciarlo, istigata alla collaborazione dallo sceriffo di zona, suo compagno al liceo e da allora suo tenace indefesso corteggiatore. La protezione, fino al processo, le sarà garantita in un convento, dove dopo alcune inevitabili peripezie, sale umoristico della commedia, diventerà la direttrice artistica del coro, fino a quel momento inascoltabile e dunque improponibile. Il bene trionferà sul male, con tutti i crismi dell'eccezionalità delle favole e dopo aver scoperto le virtù dell’amicizia proprio al buio e al silenzio delle caste mura, la vocalist riuscirà a esaudire il proprio sogno: diventare una star! Il Politeama risponde con entusiasmo al richiamo natalizio del musical: la sala è gremita, da abbonati e irriducibili – le dame in particolare - dell’abito da sera per le grandi occasioni. In alto, in jeans e scarponcini, nonostante la rigidità delle temperature, parecchie aspiranti cantantattrici, che assistono, pietrificate e in estasi mistica, alla dimostrazione, professionale, delle loro professoresse, tra le quali spicca, per cause di forza maggiore, la fiorentina, naturalizzata bolognese, Francesca Taverni, un portento sillabico in nota, una grazia estetica, un’attrice pronta a catapultarsi in un qualsiasi altro contesto scenico. A proposito di scene: la scenografia è spettacolare, semovente, con ingressi e uscite semplici, ma efficacissimi, con sipari trasportabili che trasformano, con indifferenza, la stanza delle riuniuoni omicide del boss nel salone del convento, la questura delle deposizioni nelle celle notturne delle suore. E poi, le sfumature cromatiche, le magie cangianti dei colori, l’impasto arcobalenico dell’impatto, il prodotto finale, dove le aspettative esistenziali che i sogni possano trasformarsi in realtà e che il bene, prima o poi, sopraffaccia il male, tornano puntualmente al pettine. Una fiaba raccontata per circa tre ore, con un ritmo che, seppur pronosticabile, non delude e si scompensa mai, regalando agli spettatori uno spettacolo efficacemente ideato per il Natale 1992 e che, come se il tempo, le emozioni e le aspettative non fossero ancora cambiate, ancora graditissimo, ventiquattro anni dopo.

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