di Luigi Scardigli

FIRENZE. Si chiamava Studio Uno e al posto della venere nordica Ilenia Romano (ammirata e applaudita poco tempo fa in Alfa, dello stesso Castello, al teatro dello Scompiglio di Vorno di Lucca), tre estati fa, al Funaro di Pistoia, Roberto Castello aveva deciso di piazzare, come quarto elemento apocalittico della sua compagnia Aldes, uno dei suoi danzattori stabili, Stefano Questorio. Fu nel salone in legno dell’indispensabile oasi artistica pistoiese che la sua danza critica fece l’ultima prova tecnica di trasmissione, prima di diventare, al Cantiere Florida, di Firenze (si replica stasera e domani, 16 dicembre, alle 21) In girum imus nocte et consumimur igni, che seppur non sembra possa potersi attribuire a Virgilio, resta comunque un famoso e angosciante palindromo.

Il resto della comunicazione visiva (mossa, indecifrabile, come la foto che abbiamo volutamente scelto) e dunque (a)morale, come gli altri tre interpreti, in ordine alfabetico, erano e sono rimasti gli stessi: Mariano Nieddu, Giselda Ranieri e Irene Russolillo, che completano quel mosaico schizofrenico di questa sezione umana che potrebbe essere intesa e decifrata come un'ondata di migranti anomali arrivati esausti sulle coste occidentali e pronti a risalire la china europea senza più anima. Non necessariamente, però: anche gli indigeni europei somigliano sempre più ai loro fratelli che spingono da Sud e che sembra possano sostituirsi in questa gara a ostacoli come partecipanti volti e votati al massacro. La dubtechno che sottintende gli assordanti ordini sovietici, che precedono, a loro volta, puntualmente, una diversa prospettiva scenica di questi allegri quattro ragazzi morti, resuscitati, ma morti prima di rinascere, esaspera perfettamente lo stato ansiogeno dell’immagine, scandito dal rapporto (a)musicale dai ricercati e funzionali movimenti disabili degli interpreti, incapaci, forse perché reduci da una traversata mediterranea stipati con altri condannati a bordo di un barcone che ne ha anchilosato muscolature e articolazioni, di muoversi con coordinazione. Non solo gli arti inferiori e superiori non sono più in grado di armonizzare la deambulazione; le sagome visive e i loro sguardi assenti, ringarzulliti, ogni tanto, dall’idea di un miraggio o dalla promessa di un tozzo di pane, rendono ancor più umiliante l’esodo verso non sappiamo quale terra promessa, che non aspetta altro di dare il benvenuto ad una nuova ondata di schiavi capaci di sostituire quelli sfruttati fino a quel momento e ormai talmente logori da non poter più essere utilizzati per esperimenti sui geni, dimostrazioni, lobotomizzazioni. Le luci soni quelle che vengono sparate dalla consolle lungo il perimetro del palco a sezioni delimitate: ognuno dei protagonisti sembra che abbia ancora una fune legata in vita che non consenta, a nessuno di loro, di liberarsi definitivamente dal passato e coniugarsi con il futuro. Ma con il trascorrere della rappresentazione e della familiarizzazione degli interpreti con il loro nuovo habitat, le quattro personificazioni, che continuano a cadenzare i propri passi asfittici rispettando i tempi claustrofobici della colonna sonora, sembrano riprendere le sembianze umane: sorridono e diventano, da vittime predestinate e destinate, sadici carnefici; un solo lampo di sarcasmo nel buio della disperazione, letteralmente ingerito dalla nuova sottomissione alla quale vengono sottoposti e che somiglia quella dei loro fratelli fortunati e ricchi che pretendono di riscuotere il dazio per l’offerta ospitalità. La prassi nichilista si auto esercita continuamente: Giselda, Ilenia, Irene e Mariano (l’ordine alfabetico è deontologicamente indispensabile) non abbandonano mai il loro status, così come il sottofondo sonoro, che cambia solo qualche riff sillabico, ma resta nocivo, anche se militarmente impeccabile, e non consente a nessuno di tirarsi fuori dalle gabbie luminose che rimandano sul fondale del proscenio le loro sagome apparentemente normali. Il senso di totale abbandono, sconfitta, senza possibilità alcuna di ristoro, men che mai di rivincita, si impadronisce tanto dei protagonisti, quanto del pubblico, che vengono indistintamente assorbiti, all’unisono, nel cono della disperazione, un cilindro anomalo forse un po’ troppo esasperato dal regista rivolto comunque verso gli inferi e dal quale nessuno sembra essere in grado di poter uscire.

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