di Luigi Scardigli

LUCCA. Le è rimasto soltanto il bianco, candido, del vestito che indossa, oltre la solita mostruosa e tenerissima personalità; ieri sera non era nemmeno scalza, figuriamoci. L’elemento che colpisce, conoscendola (un onore, per noi) è la crescita artistica esponenziale, a vista d’occhio, si potrebbe dire e lo scriviamo, di Elisabetta Salvatori e della sua struttura teatrale, della quale, ieri sera, 16 dicembre, al Giglio di Lucca, ne ha offerto una preziosa testimonianza, raccontando ad un pubblico attentissimo oltre ogni ragionevole partigianeria, la vita parallela del magnifico indigeno Giacomo Puccini, Piccolo come le stelle. Del Freddie Mercury dell’Opera, accostamento dettato dalle rispettive grandezze musicali e dallo stratagemma, usato da entrambi, di folti baffi utili soprattutto a nascondere un arco dentale troppo pronunciato, Elisabetta Salvatori, accompagnata sul palco per questa nuova fiaba sussurrata con la forza e la penetrazione di un’artista vera, dal violino di Matteo Ceramelli, ha voluto raccontare la parte biografica dell’erede di Giuseppe Verdi.

Ma non quella consegnata alla storia dalle sue leggendarie partiture, come Le Villi, Edgar, Manon Lescaut, La bohème, Tosca, Madama Butterfly e la grande incompiuta, Turandot; ha deciso di puntare l’indice, la luce e l’attenzione sulle oltre ottomila lettere scritte ad Albina Magi, la madre, durante il suo soggiorno giovanile milanese e poi alla moglie Elvira, durante le sue scorribande artistiche e inevitabilmente sentimentali. Ma non è di Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria Puccini e del suo sindacabile e a volte irritante atteggiamento che vogliamo parlarvi; il pubblico in sala, numeroso, composto, appassionato e silenziosamente partecipe e voi che leggete crediamo che ne sappiate abbastanza di uno dei più illustri lucchesi della storia di ogni tempo. Ci preme invece provare a regalarvi la sensazione di totale trasporto fuori dal contesto scenico e catastale che Elisabetta Salvatori ha regalato a quanti hanno avuto la fortuna di assistere al suo spettacolo, prodotto dalla Final Crew On Stage – ErreTiTeatro30 – e scritto e interpretato dalla cronista del palco versiliese. È salita sulla scena passando dalla platea, la piccola orsa bianca, introducendo la fiaba tra il pubblico presente come avrebbe probabilmente fatto un’accorta maestra consapevole di essere in procinto di raccontare, ai suoi vivaci marmocchi, una bellissima e lunghissima storia lontana però dai loro giorni, capitata ad un uomo che per la città che ospita l’evento delle sue commemorazioni culturali, rappresenta, a cerchi cosmici concentrici, un meraviglioso fiore all’occhiello. Lo ha fatto scandendo, in forma sillabica, lenta, regalando allo spazio inter metrico tutta la forza della narrazione, ogni piccola emozione, tutti i grandi momenti, usando la circonferenza delle braccia e la vettorialità delle dita delle mani con il pathos di una storia che sa di leggenda e con la tenerezza di una leggenda tramandata come se fosse storia. Sottovoce, naturalmente, perché certe cose non si possono raccontare con l’enfasi che si addice alla cronaca, anche se Elisabetta Salvatori, sempre sottovoce, ha già denunciato, in altri spettacoli, nefandezze e omissioni di un paese trasversalmente colpito e umiliato dalla mafia e dai silenzi omertosi. Ieri sera, però, in onore dei festeggiamenti che la città di Lucca sta riservando al suo illustre predecessore, Elisabetta Salvatori ha deposto l’ascia di guerra che brandisce puntualmente, ma non la spada dell’artista, che ha sguainato con l’eleganza e la raffinatezza che le si addicono da sempre e, girovagando sul palco a piccoli passi, tra lo sgabello dove ogni tanto si è seduta e il fondale, sul quale sono scorse immagini in trasparenza, ha raccontato la vita di Giacomo Puccini, del grande incommensurabile operista, che ha stentato a credere in se stesso e nelle sue facoltà musicali per lungo tempo per poi compensare le titubanze giovanili con un’arroganza e un’insolenza nella maturità che lo hanno trasformato, da giovane cocciuto e intraprendente scrittore di musica in uno degli artisti più stravaganti e irritanti dell’epoca. A spingere l’altalena del tempo e delle stagioni di Giacomo Puccini, lei, Elisabetta Salvatori e la sua inarrestabile perseveranza, alimentata da quel fuoco tenue, ma resistente a ogni avversità d'intrattenimento, della forza del teatro, anche di quello contemporaneo, che ancora oggi, spesso, non può fare a meno di utilizzare, in tutte le sue forme, la forza della parola.
