di Luigi Scardigli

PISTOIA. Maneggiato con cura, ma con estremo coraggio, aggirando l’ostacolo criminoso e l’isola di Utoya da chi, inerme, oltre a voler andare a vedere il sangue e il dolore, sente la necessità di capire. E interrogarsi. La risposta, Utoya, spettacolo mandato in scena ieri sera, 17 gennaio, al Bolognini, la succursale del Manzoni, fuori abbonamento stagionale (decisione opinabile, a nostro vedere), non la offre, perché di risposte, Edoardo Erba, che ha affidato la regia a Serena Sinigaglia e l’interpretazione, o meglio, la lettura, a quel talento innato di Marianna Scommegna e a questa meravigliosa realtà che risponde al nome di Mattia Fabris, ha deciso di darne più d’una. Lo fa affidandosi al camaleontismo fisico e vocale dei due mattatori, che interpretano tre uomini e altrettante donne, più o meno direttamente coinvolti in quella paurosa carneficina norvegese del 22 luglio 2011.
Una coppia sull’orlo di una crisi di nervi, legati all’isola della morte dove credono di aver mandato la propria figlia in campeggio; due contadini orfani, un fratello, diversamente abile, e sua sorella, che abitano per caso di fronte al casolare preso in affitto dal carnefice Anders Behring Breivik e due poliziotti, in servizio nei paraggi dell’isola della mattanza proprio in quel fatidico giorno. Tre estratti di altrettanti microcosmi che Edoardo Erba, ispirato, oltre che dalla cruenza dell’avvenimento, anche dalla voglia di indagine morale e culturale esercitata da Luca Mariani, il nostro collega autore de Il silenzio sugli innocenti, che scandiscono nevroticamente l’inconsapevole attesa dell’eccidio. Tre angolazioni, distinte e separate, senza alcun apparente punto di contatto che fanno da tragico contorno, misto a complicità, alla macabra scelta omicida dell’autore della strage. Tre pagine, sfogliate continuamente e velocemente sovrapposte e sottoposte, tanto nella lettura, quanto nell’attesa, da quell’ora di cronaca inimmaginabile, che rendono tutti gli spettatori un po’ responsabili: dai connazionali attoniti perché convinti di vivere in un paese immune dall’aberrazione, aglimspettatori, giovani innocenti laureati in cerca di occupazione a tempo indeterminato che sottovalutano, sistematicamente, i rischi e i pericoli della deriva sociale che sta solcando, trasversalmente, la società. Nella quale spopolano la follia gratuita alla quale tutti abbiamo fatto un po’ l’abitudine e che spesso minimizza, anche al cospetto di morti strazianti, l’entità dei problemi e la loro concatenazione. Perché il massacro di Utoya, derubricato un po’ troppo frettolosamente come il gesto insano di uno psicopatico, è in realtà un attacco strategico, nei modi e nei tempi, sferrato nel cuore dell’Europa pacifista e parecchio lontana dai conflitti, preparato con la dovizia di chi vuol dare un segnale forte, intimidatorio, a quella gioventù che si sta preparando a vivere un mondo nuovo. Operazione ambiziosa, quella dell’accoppiata Erba-Sinigaglia, che si è in realtà mostrata e dimostrata ideale perché sul palco dello spettacolo, prodotto dal Teatro Metastasio Stabile di Prato, in collaborazione con Teatro Ringhiera Atir e patrocinato dalla Reale Ambasciata di Norvegia in Italia, allestito, tra i fumi della nebbia e del dolore, con basi di tronchi di alberi abbattuti, sono saliti due meravigliosi mattatori: la meravigliosa Arianna Scommegna, modesta contadina dell’alta pianura padana, sorella esausta, moglie tradita e inascoltata, poliziotta costretta a rispettare gli ordini piramidali e a subire la tracotanza maschile; e la splendida altra metà, Mattia Fabris, contadino diversamente abile, perfido e dolcissimo, poliziotto innamorato del proprio potere ma senza avere voglia di metterlo in discussione, né tanto meno a rischio e marito irrequieto, stanco dei capelli bianchi della propria moglie, distratto dalla carne giovane e facilmente masticabile delle proprie studentesse universitarie e che solo di fronte al distacco spolvera subdolamente la propria tenerezza. Un lavoro faticoso, coraggioso, bello, importante, aperto a qualsiasi dibattito, che sarebbe il caso di portare nelle scuole secondarie, dove gli studenti si credono cittadini. E in quelle di teatro, dove i ragazzi, chissà quando cittadini, si credono attori.
