di Luigi Scardigli

FIRENZE. Non è facile prendere per il naso, contemporaneamente e con incredibile leggerezza, due mostri sacri come il colonialismo israeliano legato al secolare conflitto con gli arabi e l’inspiegabile scienza coreografica. Hillel Kogan e Adi Boutrous ci sono riusciti, portando in scena, da giovedì scorso a ieri sera, sabato 21, in esclusiva per la Toscana, sul palco del teatro di Rifredi, We love arabs, un concentrato di ironia, poesia e bellezza, che fornisce e suggerisce addirittura un epilogo: la comunione, la fratellanza, la pace.
Hillel Kogan, il coreografo israeliano che vanta trascorsi nella Batsheva Dance Company di Tel Aviv e che da sempre si schiera, coraggiosamente e pericolosamente, a sinistra, è deciso a mettere in scena una danza che possa rappresentare lo spinoso rapporto che slega e confligge ebrei e arabi. Per realizzare questo progetto ha bisogno di un ballerino arabo, Adi Boutrous, che vive a Tel Aviv, tanto per iniziare. Il colloquio, reso comprensibile da sopratitoli che scorrono lungo il telone scuro posto in fondo al palcoscenico sul quale non c’è assolutamente nulla, verte tutto sulla cervellotica, macchinosa e inconsistente volontà del coreografo, che vuole a tutti i costi sovraesporre il balletto ad un’improbabile sfera emotiva e cognitiva. Il ballerino arabo è umilmente disposto ad assecondare le strategie del suo maestro, ma solo con una ciotola di hummus i due, e il pubblico divertito, nonché fotografato nella propria intimità emotiva, riusciranno finalmente a capire e a sintonizzarsi. Un’ora e qualche minuto per smontare tanto la farraginosa architettura conflittuale voluta dalla politica che ignora la danza, quanto la danza che sembra non volersi affidare alla realtà - e ai suoi oggetti forniti dalla quotidianeità -, che quasi sempre è molto meno complicata e intraducibile di come la coreografia vorrebbe che fosse. Ed è attorno a queste due grandi provocazioni che nasce lo spettacolo, un piccolo autentico capolavoro che risponde, con stordente naturalezza, all’annosa e al momento irrisolta problematica palestinese e che mette alla berlina la presunta sontuosità di talune coreografie che sembrano potersi affrancare dalla realtà sottraendosi alle sue incontrovertibili e naturali leggi, meccanismi, percezioni del tempo, del luogo e dello spazio. Hillel Kogan e Adi Bortrous riescono in pratica a mettere in scena lo spettacolo-impossibile, quello che da secoli non sono stati capaci di realizzare due popoli contrapposti e un’interminabile sfilza di artisti, senza ricorrere, per entrambe le questioni, a nessun artificio. Per mettere in pace le fazioni opposte da interminabili cruenti decenni, è sufficiente distribuire, con qualche tozzo di pane, dell’hummus; per lo spettacolo, basta confidare nella straordinaria creatività ginnica e morale dei protagonisti, capaci, con i loro movimenti, di creare le condizioni uniche e ideali alla realizzazione di un balletto. Una pozione magica che trova il proprio spunto risolutivo smontando il manicheismo della falsa identificazione simbologica (la stella a sei punte, disegnata sulla maglietta e la mezza luna, dipinta sulla fronte) dietro la quale, da troppo tempo, il mondo intero finanzia e corrompe l’odio, così come da anni, attorno all’arte, e non solo alla scenografia, si sparano cannonate a salve capaci di produrre solo e soltanto assordanti rumori. E polvere, tanta polvere.
