di Luigi Scardigli

FIRENZE. È un epilogo silenzioso, la vecchiaia appesantita dalle malattie, che lascia, anche se frequente, quasi sempre senza parole. Sarà per questo che la basca Garbine Insausti ha preferito caricare fino all’inverosimile i suoi attori e, dopo averli mascherati, li ha mandati in scena completamente muti a raccontare André e Dorine, che somiglia la vita toccata in dote ai vostri vecchi genitori, o quella di un’anziana coppia, marito e moglie, che vivono nell’abitazione a fianco, sullo stesso vostro pianerottolo. È la parabola dei sogni infranti, chiusi in un cassetto, allineati sulla mensola del salotto, dove trovano posto i due volumi scritti da lui, con la macchina da scrivere, regalatagli dalla consorte proprio il giorno delle nozze. E alcune foto che li ritrae, giovani, felici, con il loro bambino procreato prima del matrimonio, delle illusioni che non riusciranno a sfatare. Appoggiato al muro c’è anche un violoncello, che lei suona molto bene; anche questo è un regalo di matrimonio: glielo ha fatto il suo giovane marito, memore del loro primo incontro.

La vita scivola via lentamente; restano solo i ricordi, sovente, a dare il diritto di sopravvivenza. E José Dault, Inaki Rikarte (che firma anche la regia) e Edu Carcamo, i tre attori che hanno animato ieri sera la prima al teatro di Rifredi, a Firenze e che replicheranno stasera e domani (alle 21) e domenica 12 febbraio (alle 16), incarnano alla perfezione, muti e mascherati, aspettative e frustrazioni, rabbie e tenerezze, invecchiando lentamente come i personaggi che interpretano, inarcandosi sulla memoria e raggomitolandosi sulle loro paure. A tenerli vivi, l’ansia dattilografica del marito, il suo unico interesse, e alcune arie classiche musicali della moglie, che si contendono, quando va a trovarli, l’attenzione del figlio, un ragazzone che non è ancora riuscito a costruirsi un affetto. Il libro della rappresentazione continua a sfogliarsi da solo, con la lentezza e la monotonia di un rapporto liso dai sogni e incartapecorito sulle abitudini da rimandare a data da destinarsi, addomesticato dalle pareti della casa che è stata il loro primo nido e che diventerà teneramente la loro tomba. Fino a quando non sarà certificata all’anziana signora la malattia, crudele, satanica, irreversibile. Da quel momento in poi, l’abitudine diventerà un’avvincente scommessa, la consuetudine, un corteggiamento rinnovabile, la follia, un’adorabile stravaganza. Il disegno, è un mosaico meraviglioso, che la giovanissima regista dipinge con la grazia, la forza e la tenerezza di una replicante e che affida a tre giovani mattatori, anche loro, probabilmente, reincarnati e riproposti adolescenti a spiegare ai loro nuovi coetanei quello che ci può aspettare, quello che forse ci aspetterà. Una poesia meravigliosa, che non necessita di alcuna spiegazione, né sottotitoli; è il linguaggio universale dell’incalzare del tempo, comprensibile ad ogni latitudine, per qualsiasi idioma, senza alcuna necessità di sottotitoli, né di speaker o simultanei. È la vita che si prende, lentamente e inesorabilmente, le nostre forze, le conserva in posti che spesso non ricordiamo, ma che poi si lasciano ritrovare, all’occorrenza, quando ne abbiamo più bisogno. Sono teche impolverate, appunti lasciati sotto il cuscino del divano della sala, memorie che possiamo rintracciare e usare come se fossero nuove solo se abbiamo avuto la forza, la costanza, la perseveranza e il coraggio di saperle difendere, onorare. Sono fotografie che ci rinfrescano la memoria, ormai disabituata a voltarsi indietro, per paura di non avere più il coraggio di guardare avanti, perché la strada si stringe inesorabilmente e la velocità degli altri ci impressiona. Una meravigliosa opera teatrale, che ha già festeggiato le quattrocento repliche, più o meno equamente ripartite in venticinque paesi, con quelle maschere, quei sottili sottofondi musicali, quei ticchettii della macchina da scrivere, quelle poche note accordate dal violoncello che pare aspetti solo le mani della sua padrona per emettere un suono, un vagito, un segnale. Una splendida rappresentazione, tra il teatro universale di Emma Dante e la letteratura cosmica di Heinrich Boll, partorito da una ragazza con il dono anticipatorio della vita e dei suoi inevitabili risvolti, illuminata dalla resurrezione.

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