di Luigi Scardigli

PISTOIA. Deambula con qualche difficoltà di troppo, visto che è solo un cinquantenne, lungo il pavimento della camera da letto, Yona Popoch (Carlo Cecchi): i trent’anni di matrimonio che ha diviso e condiviso con la sua Leviva (Fulvia Carotenuto) lo hanno del tutto svuotato, disilluso, ferito a morte. Il culo della sua consorte non è più turgido come quando si sono conosciuti e anche tutto il resto è andato via via perdendo gusto, spessore, anima. Ma il pessimismo di Hanoch Levin è ancor più cosmico di quello di Leopardi, visto e considerato che per il drammaturgo israeliano non c’è Ginestra che possa riscattare il mondo.
E allora, tanto vale, nel bel mezzo della notte, rovesciare il materasso dove la sua dolce metà sta dormendo e sognano l’acquisto di un cappellino per l’estate e frantumare, in un istante, una vita passata insieme, che altro non ha fatto che creare mestizia, infelicità, inducendo l’uno e l’altra alla sistematica rinuncia di tutte le occasioni, inevitabilmente perdute. E nemmeno la visita, in piena notte, di Gunkel (Massimo Loreto), lo zitellone che dovrebbe rincuorare, se non esaltare, la dinamica di coppia, sarà di conforto al nichilismo di Yona, ricondotto vigliaccamente alla ragione solo dall’approssimarsi di un attacco cardiaco, che lo ucciderà proprio nella notte della ribellione. Il lavoro di vivere, di Andrée Ruth Shammah, prodotto dal teatro Franco Parenti e da Marche Teatro, in scena al piccolo teatro Bolognini di Pistoia fino alla pomeridiana di domenica 12 febbraio, è un insindacabile insulto alla speranza; non a caso, sulle locandine, il titolo della rappresentazione è scritto su due righe, con la seconda capovolta: perché è l’amore, e tutte le sue convenzioni, un manifesto controsenso, anche se poi, tirando le somme delle nostre esistenze, Leviva, per evitare di essere abbandonata, snocciola i lati positivi, se non altro asettici e che hanno saputo tenere lontano il dolore, di quello che il loro matrimonio e i matrimoni in generale hanno la facoltà di ideare, costruire, produrre e che probabilmente resteranno in piedi fino al sopraggiungere della morte. Ma l’insofferenza di Yona è ormai arrivata sul limite del non ritorno e non ci sono commoventi seduzioni di sorta, tristemente escogitate da Leviva (una cinquantenne con un gran bel culo), né le sue controaccuse al fallimento del marito, in tutte le sue angolazioni, a distrarre il disfattismo del consorte, ormai deciso a lasciare l’abitazione senza nemmeno togliersi il pigiama. Una verità vera, dolorosa, ma quasi sempre mitigata, nascosta, camuffata e tenuta lontana come calice amaro e foriero di pericolose distrazioni, dall’incedere dell’età, proprio verso la fatidica soglia dei cinquant’anni, dove spesso si fanno bilanci e si finisce per convincersi che tutto sommato sarebbe potuta andare decisamente peggio. Un teatro della parola, introspettivo, dove il valore del significato assorbe, quasi del tutto, la forza recitativa dei protagonisti, che sono funzionali al testo quanto al suo adattatore, in una discesa, inevitabile, ma improbabile, verso gli inferi della totale dissoluzione.
