di Luigi Scardigli

PISTOIA. Un film complesso, un musical anni ’50, una scenografia irragionevole, una cura meticolosa, spasmodica, tassonomica, febbricitante dei dettagli, soprattutto quelli che fanno da corollario alla luce centrale del palco, spoglio, ma occupato in ogni suo angolo, dalla presenza degli oltre venti protagonisti (tutti allievi, giovanissimi, della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo) che non smettono un attimo, nessuno, di dare ossigeno, energia, pathos e divertimento, a tratti burlesco, al mitico racconto. Il viaggio della vita, ormai, è un’Odissea, molto più dura e complicata di quanto non lo fu il ritorno a casa di Ulisse dalla moglie Penelope e dal loro figlio Telemaco, descritto, e consumato dalle antologie scolastiche di tutto il Mondo, da Omero. Emma Dante, che firma divinamente il testo e la regia, si è messa all’anima questa pesante, articolata e storicistica rilettura, ambientandola e contestualizzandola e riuscendo soprattutto ad attivare la seconda fase, quella dell’epica attualizzazione di un testo che ha sulle spalle quasi tremila anni.
Una luce negli sguardi e nelle smorfie di ognuno dei protagonisti, un’orchestra sinfonica composta da tanti strumentisti, quanti direttori, un estenuante esercizio ginnico, un meraviglioso concerto a cappella, continui escamotages scenografici prodotti dal riutilizzo delle materie prime e povere, un coordinamento tecnico e una coordinazione tattica monumentali, che salutano, coincidenzialmente, le due capitali italiane della cultura che si passeranno lo scettro tra questo 2017 e il prossimo 2018: Pistoia, dove Odissea A/R sarà replicato stasera, al Teatro Manzoni, alle 21 e domani, 19 febbraio, alle 16 e Palermo, città natale della regista e dove ha sede la sua palestra artistica e i suoi numerosi allievi, quelli che si dividono tra questa rappresentazione, in prima regionale a Pistoia e le repliche, che vanno avanti da due anni, de Le sorelle Macaluso, l’altro capolavoro della regista siciliana nel cartellone del Manzoni nel 2015. Anche questo spettacolo ricalca fedelmente le orme della sua ideatrice, forse sporcandole un po’: dipenderà dall’articolazione epica del testo o dal numero spropositato di artisti che ne combinano il meccanismo; il risultato, anche stavolta, però, è semplicemente fantastico. Tutto nasce dai famosi intro di riscaldamento cari a Virgilio Sieni, per poi prendere autorevolmente il largo e il lungo attingendo, con rispetto e creatività, le intuizioni dei danzattori di Pina Bausch o degli chansonnier della musica partenopea, lungo un percorso teatralmente impeccabile, fatto di inspirazione e respirazione, tessere e stessere, battute musicali impeccabili, puntuali, uno scarto continuo e repentino tra il dualismo cromatico e l’esplosione dell’iride, un pericolosissimo andirivieni lungo l’area del palcoscenico, con abili e repentini cambio d’abiti, nudità che non scatenano desideri inconfessabili, che non suggeriscono morbosità, ma che pongono il protagonista lungo le prime file della platea, o nei più lontani palchetti. Una fisicità manifesta, che pesa quanto le parole, stavolta pronunciate in abbondanza e in un idioma non dialettale, dunque comprensibile. Ce ne andava di mezzo la fedeltà omerica, non si sarebbe potuto scherzare, nemmeno oltre ogni ragionevole adattamento. Emma Dante è riuscita ad andare oltre lo steccato: ha imposto ai suoi allievi uno studio spasmodico dell’opera per poi sottoporli al drenaggio teatrale, quello che trasforma uno scolaro in un probabile maestro. Da Manuela Boncaldo a Claudio Zappalà, la prima e l’ultimo del cast (in ordine alfabetico) e gli altri ventuno protagonisti, tutti della scuola palermitana del Biondo, sono riusciti davvero, nell’arco di una rappresentazione, a fare e disfare la tela di Penelope, ansiosa di rividere il suo Odisseo e a detronizzare alcuni supereroi, senza negare loro la maestosità delle loro azioni, ma lasciando intendere che ognuno di noi, comune illustre mortale, nel proprio piccolo, ha la grande opportunità di partire, lasciare tutto e sfidare la sorte per poi tornare, anche ventitré anni dopo, al punto di partenza: a patto che sappia adattarsi al tempo che è passato, a patto di non avere la presunzione di voler ritrovare tutto com'era.
