di Luigi Scardigli

SESTO FIORENTINO (FI). Non è frutto di pozioni magiche la forza recitativa di Valentina Banci. Certo, immedesimarsi in Medea, anche su un seggiolone issato sul fianco di un’imbarcazione, avrà avuto sicuramente il suo riflesso, ma si arriva a rasentare la totale compenetrazione nel personaggio che si è deciso di interpretare solo e soltanto se si sono trascorse stagioni intere a lavorare e sudare, duro e tanto. Altrimenti, la vendetta figlia di un tradimento da censo, non potrebbe animarsi con tanta virilità e giungere alla sua totale aberrazione, quando, dopo aver ucciso la donna che le ha strappato il marito e il futuro suocero del consorte, Medea decide di sacrificare anche i suoi due figli (la mitologia parla di tre, ma chissenefrega), affinché Giasone non abbia eredi.

Una storia rappresentata in tutte le salse, Medea, che Paolo Magelli, però, traduttore ed elaboratore drammaturgico, ha voluto riassumere, condensare e affidare ad un unico corpo, quello, meraviglioso, di Valentina Banci, sfidando le regole della chimica, prima che del teatro, lasciandola sola con se stessa e con la sua Medea, ma anche con il fedigrafo Giasone e il distratto Re Creonte, forse perché figlio di Dei, in un crescendo emotivo ed emozionale particolarmente intenso, che il pubblico del Teatro la Limonaia, di Sesto Fiorentino, alle porte di Firenze, ha lungamente e rumorosamente applaudito dopo l’ora di totale apnea ossigenato dal monologo. Una donna piena di cazzimm’, Valentina Banci, come l’apostroferebbero a Napoli, che parteggia spudoratamente con la devozione femminile, umana, materna e coniugale per la sua Medea e la sua giustificabile e ingiustificata sete di vendetta, ma che riesce, nonostante la femminilissima sottoveste bianca insanguinata, a essere anche il cinico calcolatore Giasone e perché no, lo spocchioso Dio Creonte. Un dramma fisico, prima che mnemonico, un totale inabissarsi nell’animo magico e vendicativo di Medea, che non nasconde mai, nemmeno dopo aver progettato e pianificato la mattanza che le darà finalmente ristoro, non certo pace, il suo totale amore verso Giasone, una passione che le era costata già un fratricidio e la tragica consapevolezza che per quest’uomo, lei, sarebbe stata disposta a tutto, anche a disfarsi dei propri pargoli, due sfere di un irriverente pallottoliere. Una Valentina Banci piena di calore e vendetta, arte e coraggio, distanza professionale e totale immedesimazione, reduce dalla tournée del più noto Porcile cinematografico, trasportato sul palco da Binasco (chiusasi a Milano domenica scorsa) e immediatamente traghettata sulla sponda epica di Euripide, con una congiunzione astrale e coincidenziale che avrà, teatralmente, le sue motivazioni, visto che direttamente o indirettamente, è sempre Pier Paolo Pasolini a guidarle gli istinti, a suggerirle i personaggi e a decretarle una sontuosa poliedricità che il mondo del teatro le riconosce a pieno titolo e non solo quello degli spettatori-amici (è di Prato, ieri sera giocava quasi in casa) che ne hanno osservato, ammaliati, nel tempo, la parabola artistica. Una bellezza che non teme increspature, che si logora nel tempo della passione, che non teme la fatica e i suoi meravigliosi e tragici risvolti: un’attrice incantevole, Valentina Banci, che continua a cercarsi, e puntualmente a trovarsi, attraverso i meandri dei personaggi che il palcoscenico, di volta in volta, le propone e che lei, meticolosa lettrice dell’animo e attenta studiosa del diaframma della scuola stratosiana, ripropone a quanti hanno la fortuna di imbattersi nei suoi spettacoli.

 

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