di Luigi Scardigli

PISTOIA. Una rappresentazione dettagliata, anzi, dei dettagli, la Fedra di Seneca, con incursioni euripidee. Andrea De Rosa, il dotto e colto regista e adattatore, che si cimenta da tempo nelle contestualizzazioni dei classici, stavolta ha provato a sfiorare la perfezione e in alcuni momenti della rappresentazione, quella vista ieri sera al Teatro Manzoni (si replica stasera, alle 21 e domani, 5 marzo, alle 16), c’è anche riuscito. Il confessionale trasparente e insonorizzato dove i naufraghi vanno ad animare i loro assoli, è veramente la stanza delle passioni, delle intimità, delle rivelazioni, nella quale Fedra (Laura Marinoni), suo figliastro Ippolito (Fabrizio Falco), il marito Teseo (Luca Lazzareschi) e la damigella (Tamara Balducci: i seni belli vanno fatti vedere, brava), di volta in volta, eseguono i propri virtuosismi, in un crescendo scenografico degno delle migliori fiction cinematografiche.

Per questo, per questa Fedra, occorre citare Simone Mannino, scenografo e costumista, Pasquale Mari, elettricista, Gup Alcaro, fonico, l’assistenza alla regia Thea Dellavalle e Alfredo Casamento, il Bignami scientifico: i loro contributi sono determinanti alla sontuosa composizione del mosaico teatrale. Con la coscienza vestita di rosso (Anna Coppola), una divinità travestita o una semplice correttrice morale, innalzata a dea dall’empirismo degli altri, che introduce l’opera ammonendo, sistematicamente, i suoi artefici e scandendola con ripetuti effetti musicali allegorici. Anche la personificazione dei ruoli è saggiamente distribuita, alimentando così ulteriormente la positività del giudizio complessivo e finale: l’incestuosa Laura Marinoni è continuamente madre e amante, in un double face di tenerezza e perdizione, stanca e disorientata nel suo ruolo altero di figlia di dei e sposa di un re e incontenibilmente desiderosa di rompere gli schemi, così come Fabrizio Falco, giovane amazzone che preferirebbe immergersi nella natura e nei suoi vincoli naturali, anziché lacerarsi al cospetto delle passioni umane. Anche Luca Lazzareschi, che ritorna dall’Ade dove una spossante battaglia negl’inferi lo dava per morto, riesce a scrollarsi di dosso la spossatezza dell’interminabile tenzone e riarmarsi di dignitosa passione per spezzare l’infamia familiare. Anche Tamara Balducci, l’ancella, l’amica di famiglia, seppur marginale agli archetipi, alle bramosie e ai delitti interni, accresce con misurata percentuale il pathos complessivo di Fedra, che giunge velocemente alla fine (ottanta minuti, tempo standard ideale) con un ritmo narrativo, teatrale e musicale senza soluzione di continuità: insomma, una gran bella cosa da vedere. La nostra impressione è stata pienamente confermata dagli applausi finali del pubblico, che non ha potuto fare altro che inchinarsi, volentieri, alla meticolosa architettura della rappresentazione e riprendere la strada di casa con ostentata soddisfazione per un sano e giusto investimento culturale. Qualcosa però, senza voler lontanamente nemmeno insinuare di sindacare, a questa Fedra, è mancato, come se nessuno dei protagonisti si fosse lontanamente riconosciuto nel proprio personaggio, come se i cinque professionisti del palcoscenico avessero intuito l’utilità e l’opportunità di questa partecipazione senza però condividerne gli umori, in una stagione probabilmente corrosa, lacerata e tramortita, ormai incapace di riconoscere e soprattutto riconoscersi nelle passioni, negli amori, nella maternità e nella dignità dei tempi di Fedra, epica così lontana da sembrare impresentabile se non per estenuanti e appaganti esercizi teatrali.

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