di Annalisa Falché

MILANO. In platea, al Piccolo di Milano, è tutto esaurito, da giorni. Mi devo accontentare della balconata. I quattordici attori del laboratorio palermitano di Emma Dante sono già sul palcoscenico; sta per iniziare Bestie di scena. Hanno vestiti comodi e le scarpe da ginnastica. Stanno facendo training. Quello che si fa prima di ogni spettacolo. Quello che faccio anch’io. Sono attrice. Vorrei scendere dalla balconata e mettermi sul palco con loro. E fare. Invece, sono dall’altra parte. Sono nel ruolo della spettatrice. Strano. E’ un luogo troppo sicuro la poltrona. Troppo comoda come situazione. Il training s’intensifica. Gli attori si dispongono in cerchio. Poi si uniscono. Le luci in sala si abbassano. Ci siamo. E’ il segnale d’inizio.

Eppure il training continua. C’è continuità. Gli attori si uniscono in un’unica forma geometrica. Precisa. Si muovono in unico ritmo. Sono un corpo unico ora. So bene che a quell’apparente semplicità corrisponde una grande complessità. Poi accade qualcosa. Gli attori vengono uno a uno in proscenio. Si svestono. Si asciugano il sudore e lanciano i vestiti e le scarpe fuori del palco. Restano così. Nudi. Si coprono a vicenda i genitali. I seni. Alcuni gli occhi. Per non vedere lo sguardo dell’altro? Per la vergogna? Eppure non c’è erotismo. La loro fragilità impaurita mi riporta per un attimo ai campi di concentramento. Mi sento nazista. Percepisco di avere un potere che mi fa male, che non ho e non ho chiesto. Non l’ho chiesto? In quel silenzio di sguardi c’è un respiro d’imbarazzo che scrive il patto tra noi e loro. Come una comunità in fuga dal Paradiso, i quattordici corpi affrontano le insidie del palcoscenico dove sono imprigionati. Dalle quinte arrivano petardi, cibo, acqua, giochi. Gli attori sono sollecitati a reagire, piangere, ridere, svenire in quel nuovo mondo. Sento lo sguardo divertito e autoironico di Emma Dante in questi attacchi esterni agli attori. Loro come bambini credono e giocano fino in fondo. Illudendosi di vivere davvero. Sfinendosi nel corpo, come bestie, perdono tutto. Un’idea costruita di se stessi. Il pensiero. Anzi, perdendo tutto finiscono per pensare solo con il cuore. Sto assistendo a una nascita: quella dell’individuo. Dalle quinte arrivano, finalmente, vestiti di scena, ma le Bestie scelgono di stare nudi in proscenio senza coprirsi più a vicenda. Scoprono di essere sempre stati nudi. Il vero attore è prima di tutto un essere umano che ha trovato il coraggio di denudarsi delle finzioni per ritrovare il proprio sé e offrirsi con coraggio. Senza vergogna. Lo spettacolo si chiude con questa nuda consapevolezza. Tanto che la fine appare come un nuovo inizio: quello di un nuovo spettacolo. Essenze pronte per muovere nuovi guanti di uno spettacolo mancante. E dietro ogni mancanza, si sa, c’è un grande desiderio d’amore. Buio. Gli attori escono nudi e rientrano vestiti. Ringraziano. Gli applausi sono tanti. In metropolitana penso a Emma Dante. Ho sentito colleghi dire "non tratta bene i suoi attori". Sono cose che si sentono. Eppure, Bestie di scena è una grande dichiarazione d’amore di una regista verso i suoi attori e verso una rinascita del teatro. Uno spettacolo nudo. Non intellettuale. Senza ruoli. Senza testo. Già. Senza testo. Solo corpi. Suoni. Sudore. Essenziale. È il testamento e l’augurio per una rinascita e un nuovo linguaggio teatrale.

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