
PRATO. Fra le vostre cose quotidiane portatevi sempre anche un'agenda, dove abitualmente prendete appunti, preferibilmente in versi: il ladro di turno, Nino, per l’esattezza, dopo avervi alleggerito e svenduto la refurtiva, passerà a trovarvi. Non vi renderà nulla, ma non lo odierete, né sarete tentati di denunciarlo; anzi, scriverete per lui e per la sua povera Anita ancora qualcosa, che non produrrà comunque effetto alcuno, come invano lo furono nel dettaglio. Massimiliano Civica, minimalista doc, si imbatte in un nuovo spettacolo tipicamente surreale, riadattando lo scritto di Armando Pirozzi, Un quaderno per l’inverno, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato con il sostegno di Amunia Centro di Residenze artistiche Castiglioncello.
Sul palco del Fabbricone (si replica fino a domani, 19 marzo, alle 21), a Prato, Alberto Astorri e Luca Zacchini, due psicopatici ai quali la vita ha riservato destini letteralmente diversi, seppur parimenti dolorosi. Il primo è il professor Velonà, di lettere, dell’Università (di Milano, ci vien fatta di azzardare), solo e destinato a rimanerci; l’altro è Nino, un bandito da strapazzo, che sopravvive di borseggi e che si augura, sbagliandosi di grosso, che il figlio, di soli dieci anni, faccia tutt’altra vita, specialmente dopo l'improvviso stato comatoso in cui versa la moglie. Il destino microcriminale del farabutto e la necessità, terapeutica, di adattarsi a cantore da sala di rianimazione, mette il ladro (Nino) e la vittima (il docente universitario) a stretto contatto. Chi intravede, seppur strisciante, un qualsivoglia velo moralista, buonista, conilsennodipoista, si sbaglia di grosso: le poesie, che servono al professor per ricordare e, coincidenzialmente, all’agonizzante Anita, recitatele da suo marito, per avere ancora qualche barlume di lucidità ed emotività, sono solo un artifizio teatrale. Nessuno, tanto meno il regista, ci permettiamo di dedurre, vuole suscitare retroscena, dietrologismi o dibattiti: sul palco due attori (di uno, Luca Zacchini, un quarto de Gli Omini, ne seguiamo, da tempo, le vicissitudini) che incarnano, nei rispettivi personaggi, tanto le direttive autoriali, quanto i propri back ground, che si incontrano e offrono, al pubblico, lo scontro di due civiltà che si interfacciano, quotidianamente, sulla metro, nei bar, per la strada, venendo anche, certe volte, a diretto contatto: succede quando uno dei due soggetti si impadronisce di qualcosa dell’altro, per poi renderglielo, così, utilizzato nel peggiore o nel modo più impensabile dei modi. Due scuole recitative diverse, quelle dei due mattatori, che si combinano comunque perfettamente lungo la breve e intensa narrazione spettacolare, con un uso, paradossale e spesso protratto fino alla soglia dell'inverosmile, di silenzi beckettiani, che non fanno che accrescere il senso di irncurabile patologia sofferta da entrambi, schiavi consapevoli, lucidi, ma incapaci di qualsiasi redenzione. A tenerli uniti, sequestratore e sequestrato, ma senza sapere chi sia il carnefice e chi la vittima, un’imprudente, ma fortunata indebita irruzione, anzi, due e a distanza di otto anni l'una dall'altra, di Nino nella casa del Professor Velonà, spoglia e misera come gli animi dei due rotagonisti, con una lama capace di trafiggere la pelle e arrivare diritta al cuore come offesa e delle arance, molte arance. Non può che finire con una spremuta, anzi, due spremute, per le quali occorreranno entrambe le armi.
