di Annalisa Falché

MILANO. Sono seduta in platea. Accanto a me un signore distinto. Sull’ottantina. Ha un accento siciliano. Chiede a un ragazzo seduto di fronte a lui se tra le mani avesse un libro di Scaldati. Di Franco. "Oh no, non c’entra niente", risponde il ragazzo. Mi fa sorridere tanta ingenuità. Poi parla della famiglia con alcuni amici. "Sono tutti morti i miei fratelli. L’unico in vita sono io". Sorrido sulla morte che mi siede accanto. Intanto cala luce all’Elfo Puccini di Milano. Nell’ombra, la mia attenzione ora è sull’Assassina, di Franco Scaldati, diretto e interpretato da Enzo Vetrano e Stefano Randisi, con musiche originali dei fratelli Mancuso, dal vivo. Stefano Randisi ci sorride con gli occhi. Legge una sorta di glossario siciliano per aiutarci a comprendere i suoni e le parole che andremo ad ascoltare. Il linguaggio non sarà, infatti, totalmente in siciliano come nell’originale, ma non sarà neanche totalmente tradotto in italiano.

E’ una scelta di Vetrano e Randisi quella di trovare un linguaggio che sia comprensibile senza perdere la sicilianeità. La scena è l’interno di una casa. Mattonelle azzurre. Una sedia. Una radio. Una gallina. Una vasca da bagno che sarà poi anche letto. Una scopa. Una vecchietta (Enzo Vetrano), vestita di nero. Con un turbante-fazzoletto nero in testa. Racconta con leggerezza e sorriso la solitudine della ripetizione della sua vita. Ma non la solitudine di Pasolini, bensì la solitudine dell’abitudine o l’abitudine alla solitudine. Che uccide. Racconta azioni vuote. Al pubblico. A noi, o noi siamo già stati uccisi in qualche modo e siamo fantasmi? C’informa degli orari. Della mosca. Del topo. I lumini ì addumati. La cena. Il saluto ai genitori, morti, prima di andare a dormire. Papà e mammà. Sono i fratelli Mancuso che in un quadro vivente rappresentano i genitori. Suonano melodie originali. E paradossalmente sono i personaggi più vivi. Inizia sin da subito l’ambiguità tra vita e morte. Tra luce e ombra. Tra vita reale e vita sulla scena. E su questo confine labile e incerto m’interrogo molto. Intanto in scena cala il buio e la vecchietta si addormenta nella vasca da bagno-letto. Poi arriva, nella stessa casa, l’altro personaggio. L’omino (Stefano Randisi). Anche lui ci mostra tra sorrisi e compiacimento la sua vita ripetitiva. Ci dice che fa pipì in casa solo la mattina e solo la sera. Mai fuori. Perché non gli viene (non si fida di fare un atto tanto intimo fuori dei confini sicuri). Si siede sulla stessa sedia della vecchina. Ascolta la stessa radio. Dialoga con Santina (la stessa gallina della vecchietta). Con la mosca. Con il topo. E saluta i genitori. Lo stesso quadro della vecchina. E si addormenta nel letto accanto a lei. Qui, finalmente, s’incontrano. Si vedono e capiscono di aver vissuto sempre insieme. Nella stessa casa. Di aver condiviso gli stessi oggetti. Gli stessi genitori. La stessa solitudine. In questo scenario surreale e grottesco, il sorriso è immediato, ma anche l’amarezza delle domande. Chi sono? La vecchina è la morte? Sono entrambi già morti? La casa è la tomba? Si sono risvegliati e come in uno specchio vedono la mediocrità della propria esistenza? Oppure vedono l’altro?  Di fatto sembrano una coppia. Che litiga. Un maschile e un femminile che non sa comunicare in una comprensione. Per non essere contaminato l’omino mette la barriera del vossia (del voi). Non la riconosce come donna. E tutta la comunicazione tra i due scivola ancora sull’ambiguità tra femminile-maschile (in fondo è Vetrano a fare un ruolo femminile), vita-morte, luce-ombra nella tensione della paura e della fragilità dell’essere umano che non osa andare oltre certi confini. Certi limiti. Per non perdersi e quindi trovarsi davvero. Ma l’oblio è ormai iniziato in questo incontro. Anche la consapevolezza di non essere mai esistiti. Di non sapere il proprio nome perché "nessuno mi ha chiamato mai" esclama l’omino sorpreso. E nell’insostenibilità di questo incontro rivelatorio, i due finiscono per bere un rosolio avvelenato, suicidandosi nella penombra. La morte è ormai prossima. I due si guardano e in quell’ultimo sguardo c’è il ricordo dell’esistenza che urlano chiamandosi, ricordandosi il proprio nome prima di cadere morti. Papà e mammà scendono dal quadro e suonano accanto a loro un ultimo canto funebre. Ma chi è l’Assassina del titolo? La vita? La paura. L’impotenza verso la vita. La mancanza di coraggio di esistere davvero. Mi rispondo così quando si accendono le luci dopo gli applausi. Raggiungo le maschere e lì trovo il signore che era seduto accanto a me. “Posso andare a salutare gli attori?” chiede. Lo seguo. Mi chiede: "Anche lei attrice? Sa, io vado a salutarli perché anche io ho qualcosa in comune con loro. Di cognome faccio Scaldati. Sono il fratello dell’autore". Ero seduta vicino al fratello vivente dell’autore morto. E per me un autore, come ogni artista, non muore mai. Scaldati vive nella parola, nei corpi di Vetrano, Randisi e nelle musiche dei fratelli Mancuso. E quindi? Questo confine vita morte? E' come quando mi addormento e sogno e quello che sogno a volte mi sembra più vero di quello che vivo? O è come quando mi dico che l’unica vita possibile sia sulla scena? "L’umanu pinseri crea e crea storii, umani storii vuci eterni cuntanu. Fragili vannu e silenziusi cercanu un locu dunni ogni cosa ha iniziu".

 

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