di Luigi Scardigli

FIRENZE. E della felicità, ne vogliamo parlare? Sì, certo, ma come! Perché la grande domanda, alla quale rispondere è un’impresa, consiste proprio in questo: che cos’è la felicità? È avere il più possibile, forse. Ma quando la felicità si compra, non se ne ha mai abbastanza. Michele Santeramo ha così deciso di ridurla all’essenziale la propria ricetta, ipotizzandone il minimo indispensabile per riuscire a sopravvivere e poter così dedicare ogni attimo della nostra vita alla ricerca del piacere, fino alla sua più estrema conseguenza, che è poi la giustificazione delle nostre ansie, la morte. Il suo nullafacente, per la regia di Roberto Bacci, in scena al Teatro di Scandicci con una strepitosa Silvia Pasello e tre comprimari che sanno di contorno: suo fratello, Francesco Puleo, il medico, suo ex compagno, Tazio Torrini e l’affittuario dell’immobile dove sopravvive a stento, Michele Cipriani, ne è una tragica meravigliosa testimonianza.

Con suo marito, Michele Santeramo, pigro e disinibito, lontano e inarrivabile, svogliato ed essenziale, ma terribilmente presente e concentrato, innamorato della vita, che non ha ricordi, né futuro, collegato alla natura e ai suoi corsi e ricorsi attraverso la cura del suo bonsai, la radice naturale, unica, in scena, dell’esistenza, cadenzata dalle musiche di Ares Tavolazzi (un incipit tragicamente doorsiano, un tenero ineludibile epilogo di Jimmy Fontana, tutto al contrabbasso) è la forbice tra il diritto di una dignitosa sopravvivenza e l’inutile corsa contro il tempo. A scandire il lento supersonico scorrere delle lancette di un appartamento dove ci sono un tavolo, alcune sedie, un bonsai, una poltrona e null’altro, la malattia terminale della donna, moglie di un uomo che ha deciso di sottrarsi del tutto a tutto, sorella di un ragazzo incapace di scalare la montagna della dignità, prima che del successo, ex compagna di un uomo, un medico, poco affermato, che avrebbe voluto essere sicuramente altro di quello che la vita gli ha riservato di diventare e un proprietario dell’appartamento dove vivono maniacalmente attratto dall’affitto che non gli pagano. La parola, come le smorfie di dolore, sufficienza, distacco, desiderio, rivincita, abbandono, resa, sono la sostanza della rappresentazione, che si muove lungo il perimetro della sala da pranzo, dove si mangiano le verdure scarti di scarti raccolti nei bidoni al mercato generale. Un nichilismo ricchissimo, nel quale anche un semplice movimento, un’esclamazione, una carezza, uno sforzo paiono essere superflui, gratuiti, in definitiva inutili e rappresentare così un’ulteriore distanza dal cuore del problema, che è la vita, in tutte le sue sfaccettature, a cominciare dalla condanna di esserci. Perché per esserci dobbiamo necessariamente comprare, consumare, spendere, viaggiare, pagare, riscuotere, fare, fare qualcosa che ci contestualizzi, che ci riconosca, che ci affermi, che ci distingua, che ci realizzi, che ci doni gradi, posizioni, strutture, gerarchie. La vita invece è esattamente il contrario, se solo la si potesse gestire lontano dai distributori automatici e condurre, accompagnandola, fino all’estrema battigia, quella che consegnerà ognuno di noi al mistero dell’eternità, perché niente è più reale del nulla, come sentenziò Beckett, principio incontrastabile al quale, però, Marylin Monroe – dimostrando in definitiva come la ragione appartenga a chi parla per ultimo - oppose la sua altrettanto inconfutabile massima: quando sono triste preferisco piangere sul sedile posteriore della mia Rolls Royce che su quello di un tram.

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