di Luigi Scardigli

LAMPORECCHIO (PT). Sono chimicamente simpatici, quelli dei Sacchi di sabbia, così come lo è sicuramente stato, storicamente, Luciano di Samosata, novelliere greco che visse e sbeffeggiò l’ambiente ormai diciotto secoli or sono. Da allora, è cambiato poco o nulla, anche se noi contemporanei, come tutti i contemporanei, del resto, ci si fregi puntualmente di essere primati. E invece, tutto, o quasi, è già stato scritto. Lo sa bene Massimiliano Civica, questo, che con la complicità della compagnia Lombardi/Tiezzi e con il sostegno di Armunia, ha allestito I dialoghi degli Dei, uno dei suoi spettacoli minimalisti, orfano di scenografia, musica e suppellettili, ma non per questo ridotto, se non nella durata.

È con questa rappresentazione che il teatro di Lamporecchio, ieri, 21 aprile, ha chiuso la stagione, regalando un’ora scarsa di umorismo tipicamente inglese, stile Monty Python, contaminato dalla Rivista del Derby milanese (non Inter-Milan, eh) per arrivare fino all’inespressività pisana, con i pregi e i vizi del secolo II che sono ancora, riveduti, corretti e imbarbariti, quelli del XXI, camuffati e mimetizzati dalla chirurgia plastica, dal politicamente corretto e dall’ipocrisia strisciante che continua a mietere vittime, soprattutto tra i più deboli e tra gli intellettuali. Siamo in una classe, con una preparatissima ma insolente maestra (Giulia Solano) spudoratamente clemente con il suo scolaro prediletto (Enzo Illiano) e cinica, fino all’inverosimile, con il compagno di banco di quest’ultimo, il povero Carbone (Gabriele Carli), che come va e come viene, alle interrogazioni, dirette o indirette, prende puntualmente 2. Tra di loro, le divinità (Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo), che sono originariamente umani e che sul palco di Massimliano Civica diventano addirittura pisani, raccontando in vernacolo gli amori, le passioni, i tradimenti, gli incesti, le omosessualità divine dell’epoca, che sono esattamente le stesse intorno alle quali, dopo circa duemila anni, ci ritroviamo a disquisire, a scandalizzarci, a pontificare e condannare. L’azione è rigorosa, rigorosissima; i tempi, musicali, sono fondamentali: guai a perdere il ritmo. È il teatro della parola, dei doppi sensi (Eros figlio di Zeus, ma anche Ramazzotti), tanto caro a Massimiliano Civica, anche se in modo alle volte dispotico, dove si ironizza sul meta-teatro, dove la fantasia si sostituisce alle cose, dove si celebra ancora una volta il funerale di Stanislavskij e si inneggia, orgiasticamente, a Brecht. Un concerto di musica sperimentale perfettamente riuscito, grazie soprattutto alla meticolosa preparazione degli strumentisti sul palco, con i quali si ride, ininterrottamente, dall’inizio alla fine, senza la minima soluzione di continuità.

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