di Luigi Scardigli

FIRENZE. È consigliabile, cari mariti, che la spesa andiate a farla voi, anche se siete stanchissimi; soprattutto se tra gli acquisti c’è il detergente. Sì, perché se la lista delle cose da comprare la prendono le vostri mogli e, per praticità, si servono al mercato cosmopolita, che è quello più vicino a casa, statene certi: una sera, rientrando dal lavoro, troverete la vostra metà avvinghiata a Yosip, un rozzo, ma fascinoso croato/balcanico. E non vi fate accecare dalla gelosia, non servirebbe a nulla: il ragazzo ha una sfilza di cugini incredibilmente somiglianti, che si chiamano, tra l’altro, tutti con lo stesso nome. La metafora sull’impossibilità culturale, prima ancora che etnica e fisica, di isolarsi in un angolo incontaminato dal resto del mondo, è paradossalmente, allegramente e cinicamente rappresentata da Angelo Savelli, che dirige Antonella Questa, Ciro Masella e Fulvio Cauteruccio in Alpenstock, scritta oltre dieci anni fa dal drammaturgo francese Rémi De Vos e portata in scena, dopo essere stata tradotta dalla protagonista, al Teatro di Rifredi, in prima nazionale, dal regista fiorentino.

Che non si fa scrupolo, durante la rappresentazione, di cavalcare, con nonchalance, vari stereotipi, senza però perdere di vista la traiettoria della denuncia, equamente distribuita a vittime e carnefici, senza rendere mai banale il testo, né tanto meno il contenuto, scritto in una Francia pervasa da cicloni misoneisti e xenofobi e senza soprattutto prendersi la briga, prima ancora che la licenza, di suggerire soluzioni, decretare giudizi, emettere sentenze. Anzi, il lato ludico, comico e grottesco messo in atto dai tre mattatori sono il condimento, dietetico, addirittura senza glutine, di una realtà molto, troppo, complessa, che non si può certo risolvere rispolverando, con commovente e puerile orgoglio nazionale, un ingiustificabile e ingiustificato patriottismo, né tanto meno provando a sopravvivere, stoicamente, in un orto botanico dove si coltivano solo e soltanto frutti autoctoni. La coppia tirolese, una donna semplice, che può far felice un marito psicopatico, dispotico, energico, ma sessualmente ripetitivo, noioso, inaffidabile, che vive assurdamente nel proprio eremo alle pendici delle Alpi perennemente innevate viene improvvisamente travolta dalla visita, furtiva, di uno zingaro, che si intrufola nell’appartamento e seduce, con villana e facilmente diagnosticabile precocità, la donna, naturalmente sola in casa a sbrigare le faccende. La soluzione omicida e particolarmente cruenta adottata dal marito, che li coglie, al rientro, in flagranza di adulterio, serve a ben poco. Anzi. L’infinito strascico parentale (i cugini) dell’intruso, la puerile, isterica, violenta reazione omicida del marito e la comprensibile disponibilità a subire intime violazioni da parte della donna rappresentano, con dovizia, il plot della commedia, che si snoda, chiarissima, a velocità supersonica, esaltando, al di là della valida indispensabilità del testo e le tassonomiche accortezze e puntualizzazioni scenografiche del regista, la vis dei tre protagonisti, che vestono, con impressionante naturalezza, gli abiti della rappresentazione. Un poliedrico e affidabilissimo Ciro Masella, stavolta marito/padrone disinibito, retoricamente audace, ma impeccabilmente immorale; una sarcastica Antonella Questa, navigata speaker radiofonica, invidiabile consollista sillabica, costretta, causa sopravvivenza organica e umorale, ad aggirare l’ostacolo ossessivo del consorte concedendosi al nemico visitatore e un meraviglioso zingaro, un poliglotta calabrese espatriato in tempi non sospetti, che tinteggia umoristicamente e fisicamente il proprio detestabile ruolo. Una terna attoriale di spessore, che si intreccia dialetticamente in un pericolosissimo imbuto dal quale saranno poi risputati fuori, dopo il filtro dalla botte al fiasco, ancora più grandi di prima.

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