di Luigi Scardigli

PRATO. Nemmeno all’Unione Sovietica piaceva un granché Tito, tanto che alla prima buona occasione, lo lasciò in balìa di se stesso, coinvolgendo in questo isolamento tutti gli altri Paesi dell’Est europeo comunista. Dal 5 maggio 1980 in poi, dal giorno successivo a quello della sua morte, la Jugoslavia, anzi, la ex Jugoslavia, è diventato unicamente uno scannatoio, una mattanza senza precedenti, con vari dittatori altamente sanguinari (Milosevic su tutti) che hanno cercato di annientare e annichilire le varie etnie slave fino ad allora virtualmente coese, o civilmente represse. Fiona Sansone, giovane regista di Teramo, ha raccolto l’invito della protagonista di mettere in scena, prodotto dalla CSS, Teatro Stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, quel che Mirjana Bobic Mojsilovic ha pubblicato nel suo romanzo, Diario di una casalinga serba.

L’operazione, tutt’altro che semplice e abbordabile, ha sortito comunque effetti meravigliosi e noi facciamo parte di quel piccolo ma fortunatissimo crocchio che oggi, 23 aprile, ha avuto la fortuna di assistere all’omonima rappresentazione al Teatro Magnolfi di Prato. Mattatrice unica, solitaria, adolescenziale, equilibrista, scaricatrice di porto, matura trentenne, ma con una montagna di ricordi troppo pesi e troppo dolorosi per essere sopportati dal suo corpo, esile e sensuale, Andjelka (Ksenija Martinovìc), nata con il regime di Tito e cresciuta, tra violenza, ideali e rassegnazione, sotto le minacce nazionaliste dei vari dittatori etnici e le bombe, intelligentissime, naturalmente, lasciate cadere sulla sua terra e sui suoi parenti e amici dagli Americani e dai loro alleati europei. Diario di una casalinga serba non è però soltanto un nostalgico manifesto propagandistico elettorale (che noi gradiremmo comunque); anzi, forse non lo è affatto, a onor del vero, quanto piuttosto un bel dipinto monotematico spazio-temporale, dove la giovane attrice, lungo una bisettrice di un’ora circa, ripercorre le tappe fondamentali di Andjelka, dalla scuola elementare con il foulard rosso al collo e i capelli raccolti a cipolla sulla testa ai tempi di Tito, fino all’esplosione della propria idealità, sessualità e la drammatica consapevolezza di come, dopo la stagione comunista, la sua gente sia diventata ostaggio, prelibato, per vendette e carneficine antiche e la sua terra merce geografica di scambi, esperimenti batteriologici e nuovi insediamenti consumistici occidentali. Tutto questo in un ambiente recintato dall’intima avarizia dello spazio del Magnolfi, dove Ksenija Martinovic, libellula senza freni, giunco indisciplinato, mocciosa e affascinante, danza e registra, ascolta e progetta, gode e soffre, ricorda e pontifica, ride e sogna, si sveglia e piange, indossa e sveste vestaglia e pantofole e gonna con spacco e tacco dodici, offre il fianco alle voci del passato, prova a non sentire le lusinghe del futuro, scaraventa per terra i giornali della sua infanzia, che ripone, sconsideratamente, in uno dei tre cassetti di legno che compongono la scenografia, per poi da questi lasciarsi sommergere, provando a (ri)cominciare. Il padre resta muto, in un angolo; la madre, che non l’ha mai appoggiata, le suggerisce, inaspettatamente, di provare altrove a cercare di trovare la dignità, prima che la fortuna. Ma suo fratello, il suo unico fratello, più piccolo, sta combattendo un'altra guerra, personale, in un ospedale psichiatrico: la vita di Andjelka si ferma di nuovo e riparte da questa nuova battaglia, persa, probabilmente. Come tutte le altre.

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