di Luigi Scardigli

PRATO. Dove finisce il capolavoro e inizia il mistero, che tracima nell’irritazione? Le opere di Romeo Castellucci sono, sistematicamente, esposte a questi insindacabili, ma flessuosissimi, dualismi e Democracy in America (prodotto dalla sua Societas), in scena, in prima nazionale, al Metastasio di Prato, è una di queste, appartenente, con estrema disinvoltura, tanto al primo che al secondo gruppo di pensiero/giudizio. La trasposizione teatrale dell’opera sociologica di Alexis de Tocquevilley è molto libera, iper reale, drammatica nel suo aspetto caricaturale, sofisticamente comica e offre, al regista, scenografo, costumista e responsabile delle ombre, più che delle luci, Romeo Castellucci (solo le musiche sono curate da un estraneo, Scott Gibbons), ogni divagazione, rischiando - e questo è il suo più grande godimento -, puntualmente, di essere osannato tra i profeti o venir condannato a trascorrere il tempo, fino al successivo impianto teatrale, nel girone dei blasfemi.

Con le sue opere, infatti, il purgatorio non è contemplato, perché non esiste, anche se, a sua discolpa, o in favore della sua innocenza per non aver commesso il fatto (la prescrizione, nell’arte, è detestata), occorre citare la tradizionale bravura delle giovani protagoniste, che sono Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini e Sophia Danae Varvila, accompagnate, soprattutto nell’esordio enigmistico, da un corpo di giovanissime, munite di bandierine monoletterali e campanacci che le fanno somigliare a reclute spaesate di una sperduta Legione straniera o ad una mandria di inesperti e spauriti montoni di Panurgo. Continuiamo a girare intorno, sul perimetro del palcoscenico, perché ci peritiamo di addentrarci nel cuore dell’opera e delle sue sfumature: la visione europea della giurisdizione americana di de Tocqueville, consegnata ai posteri come il distico della Sociologia contemporanea, la sepoltura del censo e l'inizio, aberrante, della democrazia, è riassunta con dubbie interpretazioni e spossanti dialoghi, amalgamati, le prime e i secondi, da una scelta scenografica tridimensionale, un po’ troppo cinematografica, una schizofrenica emulazione di una rivisitazione classica di Blade runner che offre sistematicamente il fianco allo spettatore di avere l’impressione, tangibile, di essere preso per il culo. Non tacciateci di vetero bacchettonismo perché siamo difensori, strenui e partigiani, di Emma Dante e Antonio Latella, ad esempio, due rivoluzionari, altrettanto schivi alla diplomazia, ma riconosciuti e certificati, dell’uso melodico e strumentale della parola come forma metempsicotica della drammaturgia classica. Per non parlare della ricerca, certe volte ossessiva, seppur mai sguaiata, del nudo, che amplifica il dubbio di assistere ad un inutile kolossal, dove l’ideatore della grande produzione sa, perché dotto e colto e se lo può permettere, di poter giocare e divagare, sul tema, a proprio liberissimo – e non liberistico – piacimento, farcendo l’idea originale con una valanga di segmenti, spazio-temporali, spesso estranei, anche se riconducibili all’idea madre attraverso una forzatura, non proprio lieve, della nostra singola immaginazione. Ma nell’Europa che conosce più e meglio di noi il teatro – perché altrove Teatro si studia, non solo da chi decide di voler calcare le scene – Romeo Castellucci è insindacabilmente considerato un autore profetico, anticipatore, di millenni, dello spettacolo inteso come provocazione, una denuncia, la sua, che si avvale, però, e corposamente, di tutti gli accessori del teatro/spettacolo, del teatro/intrattenimento.

Pin It