di Luigi Scardigli

PRATO. Più brava che irriverente, Silvia Gallerano, interprete direttissima, solitaria e parecchio punk di La merda, lo spettacolo di Cristian Ceresoli andato in scena alle biblioteche Lazzerini di Prato. Sì, perché l’attrice ha dei numeri straordinari, figli di studi meticolosi fatti sul diaframma e sul corpo, con estrema attenzione per le estremità: gli arti inferiori e il viso. Dello spettacolo, che raccoglie incetta di premi e riconoscimenti da circa cinque anni ovunque venga ospitata la rappresentazione, evitiamo di parlarvene: è la denuncia del sistema elevata a sistema, nell’antico, perverso e irrisolvibile meccanismo della domanda maschista e dell’offerta femminile, un puzzle dove vittime e carnefici si scambiano ripetutamente ruoli e posizioni alimentando il disgusto degli spettatori, che sono a loro volta, prima e dopo la rappresentazione, soggetti prelibati delle stesse identiche nefandezze. Il testo è geniale, nella veloce disamina del rapporto padre-figlia e della voglia/diritto, legittima, della figlia diventata donna, di affermarsi; anche lessicalmente: la merda è impronunciabile e quasi mai pronunciata, ma rende perfettamente l'idea; ancor più geniale la sua incarnazione, nel corpo di una bambina che si presenta completamente nuda sulla scena e nuda resta per l’intera durata dello spettacolo, con una strategica disaffezione ai dettagli.
È seduta, su un panchetto che sembra essere piattaforma ideale per un pappagallo e non una poltroncina per una gentil signora e racconta la sua vita dall’inizio, anzi, dalla fine, dal coraggio che ci vuole per riuscire a oltrepassare quella linea gialla, quella linea di demarcazione virtuale che si trova in tutte le stazioni e che delimita il tratto che sta tra i passeggeri, diretti chissà dove e i suicidi, che vanno tutti nella stessa direzione. A poco o a nulla sono servite le parole paterne, memori dei padri e dei nonni, che con la camicia rossa sono riusciti a costruire una patria, attorno alla quale è nato un inno, che tutti sappiamo a memoria e che Silvia Gallerano intona, con encomiabile distorsione, pensando più a Demetrio Stratos e Andrea Ceccon, forse, che a Jimi Hendrix, Sid Vicious e Nina Hagen. Certo, ha la faccia e il viso punk, Silvia, per non parlare della motilità delle sue labbra, ma è parcamente dannata; anzi, siamo dell’avviso che non lo sia affatto e che la denuncia congenitamente confezionata nella sua Merda rappresenti il suo manifesto professionale che le consentirà – lo merita e dunque glielo auguriamo – il salto e il morbido atterraggio nella stanza dei bottoni dello star system, popolato, vero, spesso fino a esaurimento posti, da nani e ballerine, papponi e mignotte, ma che non può sottrarsi agli inevitabili insindacabili tributi agli artisti veri, che sono poi quelli che rappresentano, puntualmente, le eccezioni a conferma di regole. È il teatro, bellezza, che prende tutto e rende pochissimo, in soldi e fama, che stritola le passioni, che uccide le illusioni, che smonta i castelli: siamo lontani dal cinema, ancor più dalla televisione; è dura, ma è tutta un'altra storia, tutto un altro mondo, tutto un altro succeso. Perché Silvia Gallerano è una vera e propria mattatrice vocale, una matrioska nella quale convivono una moltitudine di anime, tutte diplomate alle scuole di recitazione; piccolina, vero e con le cosce da pollo, ma con il cuore di un leone, il cervello di una volpe e la grinta di un orso. A noi, comunque – anche e soprattutto per sottolineare il dubbio che ci ha assalito, che dietro questa denuncia ci sia una velata complicità di un sistema che ha bisogno di adeguarsi a se stesso - avrebbe fatto lo stesso meraviglioso effetto anche se si fosse presentata sul palco con degli scarponcini, un paio di jeans e una fruits, bianca, a tinta unita e che alla fine non avesse avuto bisogno del tricolore per raccogliere gli applausi: la sua classe sarebbe restata intatta, le sue grida avrebbero comunque lacerato la notte, l’ironia avrebbe sicuramente fatto da magico contraltare. Il dubbio ci è venuto subito alla mente quando abbiamo dovuto sopportare il doppio ingresso, intervallato da poche decine di metri, a gruppi di venti spettatori imposto dalla produzione: un’alchimia fastidiosa e inutile, di cui nessuno, non solo a Prato, ha colto il senso.
