di Luigi Scardigli

PISTOIA. Fanno lo stesso devastante effetto a Foggia come a Cuneo? Non lo sappiamo, ma si farebbe presto: basterebbe organizzar loro una tournée e stare a guardare. Qui, nei loro paraggi, dove hanno iniziato a scommettere sulla loro assoluta capacità del nonsenso, sono, letteralmente, un’istituzione. Alla Fortezza Santa Barbara, ieri notte, tra il 22 e il 23 giugno, in uno dei tanti appuntamenti di Pistoia Teatro Festival, con Gran Glassé, se n’è avuta l’ennesima popolare conferma. Anche lontano dal palco, da intuizioni recitative, da prove in vista di uno spettacolo che verrà, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini e Giulia Zacchini, Gli Omini, sono esattamente un Mario Cioni sotto controllo sedativo con licenza di esenzione farmacologica in prossimità di uno spettacolo, una massaia frustrata che avrebbe saputo fare un sacco di cose, passando velocemente e con disinvoltura da un uomo ad un altro, un diversamente abile dall’aspetto rassicurante e per questo ancor più infingardo e una tenera crocerossina che, a furia di frequentarli e accudirli, quei tre, ha finito per assimilarne tutte le psicopatie.

Nella circostanza che stiamo per recensire inoltre, il quartetto C’ètra della Piana ha avuto la doppia intuizione di abbigliarsi all'uopo (due tenori e una excort trasformata in fatina) e musicare lo spettacolo, assoldando una punkbandorchestra, gli eXtraLiscio, fornita di tutti gli attributi, indispensabili, alla sortita demenziale, retrò, priva di qualsiasi logica contestualizzazione. A cominciare dalla voce femminile, Baby Moira, una romagnola alla quale Francesco Rotelli non ha avuto il coraggio, abbracciandola, di accostarsela famelicamente all’inguine affondandole poi le mani su quei glutei che parevano non aspettare altro, ma senza dimenticare il resto della nutritissima formazione (Mauro Ferrara, Michele Orvieti, Enrico Milli, Daniele Manzi, Alfredo Nuti, Marco Bovi, Johnny Moreno e Mirco Mariani, disposti, confusamente, alla chitarra, alla batteria, ai fiati, alle tastiere, al basso), che al di là di ogni ragionevole messinscena, conosce particolarmente bene la musica e i suoi standard, con il bandleader munito di maglietta rossa raffigurante lo stemma albanese e una predisposizione, chimica da piadina, a divertirsi. Nell’ultimo scorcio della rappresentazione, poi, sulla terrazza abitabile della Fortezza Santa Barbara, due coppie di ballerini da concorso della bassa padana, che hanno aggiunto lacrime, risate e nostalgia alla saudade classica de Gli Omini. Che ribadiamo: fanno ridere, cazzo, ma fanno ridere parecchio, in una perfetta miscela psicofisica, figlia di innumerevoli attenzioni on the road, quelle che raccolgono anche e soprattutto lontano dall’ufficialità dei loro ruoli e del loro mestiere. Attenti cesellatori, scrupolosi spettatori delle esistenze altrui, spugne porosissime capaci di raccogliere e non disperdere, se non sopra una bacinella, tutte le osmosi che cercano e raccolgono girovagando tra la gente, Gli Omini, stavolta, hanno deciso di scandire lo spettacolo suddividendolo in sei capitoli e affidando, come di consueto, a reading di improbabile attendibilità, i relativi sviluppi. Toccando tasti già sperimentati in tutto quello che hanno fatto fino a ora e che sembra essere uno sviluppo, verticale e inesorabile, delle loro intuizioni. Una comicità a elicottero, che decolla verticalmente e che atterra nello stesso identico punto dal quale si è staccata dal suolo, con quella carrellata di personaggi che li hanno resi famosi, fatti apprezzare e, questa la vera alchimia della loro forza, identificati, ogni volta con un elemento in più, un gadget nuovo, che rende ancor più farsesca la struttura di base, fedelissima alle sue origini ma con una voglia, difficilmente arginabile, di portare, ovunque, a spasso e senza guinzaglio, la loro divertentissima follia: cruda, crudele, semiseria, ma soprattutto cattiva, cinica, sadica, irriverente alle scuse, dedita al gratuito turpiloquio, blasfema con pochissime attenuanti, che si immedesima nei suoi personaggi, avanzi di una società dedita alla marginalizzazione, dipingendoli in tutta la loro maleodorante bruttezza. Una comicità saprofitica, che si nutre delle miserie e disgrazie altrui e attorno alle quali imbastisce la sua fortuna, sperando comunque che quanto prima, un sabato sera d’estate, il mondo finalmente sprofondi, inghiottendo tutto e tutti, anche Gli Omini, che però lo avevano detto. E lo aspettavano in gloria, quel momento.

 

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