di Luigi Scardigli

PISTOIA. Si relaziona solo e soltanto con il suo amico Pietro (Gianluca Casadei, al piano e alla fisarmonica), Ascanio Celestini. Rispetto a Laika, primo step di una trilogia che si chiuderà nel giro del prossimo anno, probabilmente, non è più Gesù; anzi, forse lo è ancora, ma ha superato l’esame da professionista: ha finalmente potuto lasciare la cronaca nera seguita dalla strada ed è stato nominato cronista. Da quella stanza ha scritto Che fine hanno fatto gli Indiani Pueblo? sottotitolato storia provvisoria di un giorno di pioggia. La finestra dalla quale osserva il mondo e le sue miserabili imprese è quella della redazione: se fa freddo ci sono i termosifoni accesi; se è caldo, l’aria condizionata. La casa, quella di 35 metri quadrati nella quale viveva, a Roma, davanti all’ipermercato, deve essere stata buttata giù dalle ruspe, per far posto a una rotonda, forse, o a una banca. Ma il mondo che scorre sotto è sempre lo stesso; anzi, ancor più povero e triste di prima, probabilmente.

Al mercato coperto di via Selinunte, davanti al tavolo dei mandarini, brutti, inutili e senza gusto alcuno, c’è quello della pizza: bianca, semplice, normale, anche buona, ma anche rossa, o con la mortadella dentro; squisita. Ci va Domenica, a cercare di capire chi sia il fesso da derubare: glielo ha insegnato il padre, ma anche il compagno di scuola delle elementari, uno zingarello di soli otto anni, che a scuola non va mai, ma che già fuma. Ci sono anche Giobbe – che non si chiama così, ma ha una pazienza biblica -, un cinese, una donna dell’est che gestisce una sala slot, una cassiera che fa la pipì prima di iniziare il turno e alla quale, durante il servizio, scompaiono le gambe, proprio come la Regina del mazzo di carte, salvo riacquistarle al termine dell’orario di lavoro. C’è anche un facchino africano, e poi Violetta, e anche una barbona che non chiede l’elemosina, ma che vive nel casottino della guardia giurata del supermercato e che sopravvive con tutti gli alimenti prossimi alla scadenza e destinati al macero; una mamma che parla poco, pochissimo e che tutte le sere prepara la zuppa liofilizzata, per lei, sua figlia e suo marito, che sa far tutto, anche giocare a cricket. Cosa c’entrano gli indiani, Pueblo, poi, e soprattutto, viste le temperature, un giorno di pioggia? Beh, tutto, perché il teatro di narrazione di Ascanio Celestini - a Pistoia, alla Fortezza Santa Barbara, ne ha dato un'altra meravigliosa testimonianza - è il motore di ricerca delle proprie introspezioni, una macchina da guerra che balbetta e scoppietta, ma che arriva diritta alla fonte delle illusioni, che coincidono con la solitudine, non dei numeri primi, ma delle torri d’avorio nelle quali, ognuno di noi, è costretto a rinchiudersi ogni sera, subito dopo aver girato due volte la chiave nella serratura ed essersi assicurato che in casa tutto sia a posto. È un’altra denuncia alla demagogia, all’approssimazione, alla retorica di comodo, alla santa inquisizione, alla delittuosa complicità della Chiesa e delle sue membrane tentacolari, al populismo più bieco, senza però dimenticare che i penultimi, sulla lista, sono riusciti ad affrancarsi dall’ultimo posto non tanto per l’arrivo, biblico, di un mondo della povertà sommerso, ma per gli sforzi titanici che hanno affrontato e superato. Con il filtro delle intuizioni degli indiani Pueblo, che proprio sotto la pioggia torrenziale riescono a parlare con i loro morti e ricevere i migliori insegnamenti. Una tristezza smisurata, zoomata con un obbiettivo portentoso, ingigantita fino al chiarimento del minimo dettaglio e spiattellata sul tavolo del pranzo, in un anomalo convivio dove tra i commensali ci sono tutti i rappresentanti dell’universo altro, indotto a partecipare alle logiche capitalistiche solo e soltanto perché consumatori alienati e indispensabili delle prebende, utili a mantenerli vivi per continuare a sfruttarli. Un’altra pagina senza soluzione di continuità della miseria e senza la minima idea di riscatto. Un affabulatore convinto e convincente, Ascanio Celestini, messo di sbieco tanto lungo la linea delle illuminazioni, quanto rispetto a quella della giustizia e della verità. Un crooner di strada, consapevole di essere riuscito a guadare il fiume, ma terrorizzato dalla deriva di tutti quelli che non ce l'hanno fatta - e per questo lucido – nel raccontare la vita vera, quella che si consuma e celebra, quasi sempre, sull’altra riva.

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