di Luigi Scardigli

PISTOIA. Giorgio, Enzo, Dario e Gianmaria, i suoi maestri, se ne sono andati. Tutti. E lui, per quel patto tacito stretto con ognuno di loro, è ufficialmente autorizzato a spacciare per proprie le gags partorite da altri, quelle attorno alle quali imbastisce un discorso per poco più di un’ora e si porta, tranquillo, a casa lo spettacolo. È un buffone, Paolo Rossi, misterioso, facilitato inoltre nell’operazione clownesca da un viso incartapecorito sulle proprie false sciagure, ma sostanzialmente onesto e ogni volta che estrae dal proprio cilindro qualche gemma non originale, ha la correttezza e il buon cuore di dirlo a quale fonte si stia ispirando; a patto che si ricordi di chi si tratti, perché, come ha ribadito anche ieri sera, è sempre meglio un alcolizzato famoso che un alcolista anonimo. E anche ieri sera, 19 luglio, alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia, il piccolo saltimbanco friulano (di Monfalcone) - milanese nello slang e nell’immaginario collettivo dei suoi numerosi estimatori - nella propria improvvisazione – parecchio rodata, in verità e ormai autotrasportata da più di un anno in tournée – accolta dalla Fondazione Giorgio Gaber, che ha devoluto l’incasso della serata alla Fondazione Firenze Radioterapia Oncologica, i suoi maestri, Gaber, Iannacci, Fo e Testa, che sono stati anche grandi amici, ha voluto ricordarli.

Come capita quasi sempre, del resto, citandoli, uno a uno, con tanto di aneddoti e corollari allegati. Nell’amena conversazione divisa e condivisa con il pubblico, non proprio numerosissimo – e vista la nobiltà del fine, ancor meno giustificabile – Paolo Rossi ha gramelotato una serie di ricordi personali, alcuni dei quali divenuti, negli oltre trent’anni di carriera, di dominio pubblico e contemporaneamente, pezzi pregiati del suo repertorio, come l’incontro, il primo, avvenuto con il cavalier Berlusconi negli studi televisivi del Maurizio Costanzo Show, proprio la sera nella quale il leader di Forza Italia annunciò la sua discesa in campo. Ma anche quando, con il folle autentico della compagnia del Derby, Enzo Iannacci, Paolo Rossi attraversò la Galleria milanese in pieno centro a bordo di una macchina urlando dal finestrino, o le scaramanzie tattili e testicolari profferte con un altro amico, Stefano Benni (ancora vivo!) al funerale di uno della compagnia.

Il tutto tra nonsense e vocalese, nostalgie e inesorabilità, accompagnato da due complici musicali ideali, Emanuele Dell’Aquila, alla chitarra e alla voce e dal contrabbasso di Alex Orciari, strumentisti poliedrici in grado di adeguare la base del motivo lungo percorsi strumentali disparati tra loro. Sul filo della memoria, dei luoghi comuni divenuti piatti prelibati per le battute e motivo di totale coinvolgimento del pubblico, che risucchiato dall’onda rossiana, finisce per dare un sostanzioso contributo alla causa comica finale. Lo spettacolo è iniziato come da copione, indispensabile in questo frangente storico e sociale, rivolgendo una parola agli ultimi; lo ha fatto intonando una delle canzoni più tragicomiche dell’amico Iannacci, Faceva il palo nella banda dell’Ortica. È proseguito lungo la bisettrice dei matrimoni (lui ne vanta tre, equosolidali, però: un figlio per moglie) e si è trascinato, senza infamia e senza lode e con l’innata scioltezza che da sempre ne contraddistingue la trasandata versatilità, fino al termine della rappresentazione, fino al bis, preannunciato e suggerito, come richiesta, al pubblico, che non si è dimenticato di invocarlo ancor prima che il trio scendesse le scalette poste alla destra del palco.  

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