di Luigi Scardigli

FIRENZE. Il coefficiente artistico di un soggetto che calca le scene lo si misura anche dal volume con il quale riesce ad occupare lo spazio. Roberto Latini, da questo punto di vista, che non è opinabile, non può prendere lezioni da nessuno. Perché nonostante non sia un marcantonio, in scena, è semplicemente monumentale, letteralmente gigantesco. A una conoscenza enciclopedica dei tempi e dei segmenti fisici occorre poi aggiungere l’utilizzo catartico che fa del diaframma, amplificato a dovere, che gioca un ruolo decisivo nell’analisi collettiva degli spettacoli. In particolare nel Cantico dei cantici, che sarà replicato stasera e domani, 28 ottobre, al Teatro di Rifredi, dopo il battesimo produttivo di Fortebraccio teatro e grazie al sostegno di Armunia Festival. L’avevamo già visto e recensito, lo spettacolo, quest’estate, al Castello di Castiglioncello. Siamo tornati a vederlo, perché era opportuno farlo: osservarlo all’opera, Roberto Latini, è un piacere indiscusso e poi, eravamo convinti che qualcosa, al debutto, ci fosse sfuggito.

Cosa, in realtà, non riusciamo a specificarlo, con esattezza, ma nel complesso del giudizio, il commento devi fortificarsi anche sulla base di una serie di elementi cognitivi che – questo è forse l’unico grande micromacro torto dell’autore – sfuggono, inesorabilmente, alla risposta epidermica ed emotiva che prende il sopravvento sulla rappresentazione. Che è asessuata, nel senso più nobile della comprensione chimica; Roberto Latini, dj del quarto millennio, figlio, frastornato da un amore più grande delle sue possibilità affettive, di Blade Runner, veste, contemporaneamente, Prada e Versace, Salomone e Sulammita. Il casottino dal quale trasmette la sua musica, un dub post pacem, che evoca C’era una volta in America e continua a tenere in vita Raffaella Carrà, totem inconcepibile di svariate generazioni, somiglia il cruscotto di un camionista, dove trovano spazio parrucche variopinte per incontri occasionali lontano dalla normalità, foto sparse e un telefono, uno di quelli del secondo millennio, con la rotella per comporre i numeri e la cornetta da sollevare per riuscire a parlare. Dall’altro capo della linea, però, non c’è nessuno e se qualcuno ci fosse, ha deciso di restare in silenzio. Non ci sono interlocutori in questa divinazione del Cantico. La panchina che dondola - dunque è una culla - di un improbabile giardino pubblico e sulla quale il cronista atomizzato riposa tra una diretta e la successiva, compone e completa il monolocale esistenziale dove vive, ama, si droga, dorme, fa sesso, ma senza riprodursi, il protagonista, che troppo spesso si dimentica dell’utenza, ma non quella che deve fare la fila agli uffici postali per pagare le bollette, ma quella che è lì, a teatro, per cercare di capire. Uno spettacolo implosivo, accolto con benevolo stupore soprattutto da chi chiede emozioni forti, incontemplabili, incatalogabili. Roberto Latini, un affasciante dandy con punte di darkismo e nichilismo sontuose, conosce perfettamente, oltre che il proprio spessore fisico, fonico e umorale e la sua meravigliosa arte di trasformista, anche gli odori dei propri affezionatissimi spettatori, che lo vogliono così, durante le esibizioni: anarchico e transgender, colto e dotto, ma autocelebrativo fino a distanze siderali. Lo vogliono così sempre: prima. E anche dopo.

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