PRATO. Ebbe paura della critica e per questo, quattro anni dopo il debutto (1921), lo ripresentò, riveduto e corretto, aggiungendo al testo originario una prefazione che ne giustificasse la follia: peccato. Peccato, perché sarebbe stata cosa sana e giusta che il pubblico di allora facesse uno sforzo superiore e riuscisse a scorgere, contemporaneamente alla stesura del dramma, la sua universale e lungimirante intuizione e gli tributasse immediatamente, anziché accoglierlo alle grida isteriche di Manicomio, Manicomio!, come urlarono molti romani a fine rappresentazione al Teatro Valle, la sua sconfinata tragica bellezza. Quasi un secolo dopo, però, e precisamente nel 2017, di novembre, giovedì 16 (si replica stasera, 20,45, domani, 19,30 e domenica 16,30), al Metastasio di Prato, al termine della fedelissima meravigliosa maratona rievocativa dell’opera massima di Luigi Pirandello, il pubblico si è alzato dalle poltroncine e ha voluto applaudirli in piedi i Sei personaggi in cerca d’autore (prodotto dai Teatri Stabile di Napoli e Genova e da quello Nazionale).

Scritturati, loro e gli altri della compagnia inesorabilmente disarcionata, da Luigi De Fusco, che anche in questa circostanza si è voluto fidare, quasi in totale abbandono, alla rodata interpretazione di una delle sue muse preferite, la sua spumeggiante conterranea (napoletana) Gaia Aprea, affidandole il ruolo doloroso e sensuale della figliastra. Del dramma in questione e del suo autore, Pirandello, non vi diciamo nulla, altrimenti leggereste tra giorni tutto quello che si deve necessariamente ricordare, sottolineare e scrivere. Del padre invece, Eos Pagni, ci fermiamo, proprio mentre scriviamo e vi invitiamo a fare altrettanto, non appena leggerete il suo nome: straordinario, dolcemente aggressivo, irremovibilmente possibilista, una leggera asperità montana, osservandolo da vicino, nel camerino (dove lo abbiamo aspettato per aggiungere, a una vita di applausi, anche il nostro), ma che solo inerpicandocisi se ne avverte tutta la maestosità. La lista dei protagonisti da applaudire, anche il giorno dopo e senza alcuna certezza che i diretti interessati lo vengano a sapere e che coinvolge equamente tutto il cast, prosegue con il capocomico della compagnia invasa, Paolo Serra, la madre, Federica Granata e Angela Pagano, madama Pace, la megera italospagnola, parecchio felliniana e pasoliniana, che compare e scompare all’improvviso, lasciando comunque una scia luminosa difficilmente dimenticabile. Un’opera meravigliosa, di un teatro antico, non ancora vinto, soprattutto perché a renderlo invincibile e dunque, ancora indispensabile, la splendida amalgama tra invasi e invasori, tra i primi inconsapevoli di quello che stanno per vivere e per il quale dovrebbero essere disposti a pagare oro, per poterlo gustare in diretta e gli ultimi fieri di riuscire a coinvolgere finalmente un autore che, seppur ignaro e incapace, darà finalmente luce, corpo e parola a qualcosa che altrimenti non avrebbe mai potuto andare in scena. Un teatro nel teatro, con un travaso fisico e virtuale di uomini e cose, ruoli e protagonisti, con i primi affermati mestieranti che devono, con il lento inesorabile trascorrere del tempo, lasciare inesorabilmente spazio a questi mendicanti di scena, che hanno, come arma letale, qualcosa in più da raccontare: loro stessi. Un forza centrifuga che allontana, con irriverente gentilezza, tutto ciò che è estraneo al dramma personale, familiare, sociale e politico dei sei personaggi, che si impossessano di uno spazio qualsiasi affinché non altri, ma loro stessi, possano finalmente fare i conti con la loro unica, estrema e finale rappresentazione.

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