
PRATO. Una divertentissima ragnatela di ipocrisie, crudeltà, cinismi, un quadretto familiare di rara cattiveria e di tassonomico riferimento brechtiano. Anzi, un ring, dove sono ammessi anche i colpi bassi, in alcuni casi, dove non vince nessuno, se non il male di vivere, che tutti noi, mariti e mogli, inesorabilmente, incontriamo. Play Strindberg (rielaborazione della Danza macabra di August Strindberg, di Friedrich Durrenmatt, affidata alla regia di Franco Però, al Fabbricone di Prato fino a domenica 17 dicembre), è, oltre che un graditissimo esercizio teatrale per tre vecchi marpioni (si aggirano attorno ai sessanta, vecchi è in corsivo, eh) che conoscono perfettamente il proprio lavoro, una disputa senza tempo, un miserabile affresco della falsità matrimoniale che riesce a trascinarsi dietro, con estrema leggerezza, tutto il peso incombente e devastante dei sotterfugi che ognuno di noi calibra e gioca a proprio piacimento, collassi compresi.
Maria Paiato e Franco Castellano sono Alice e Edgar, un’attricetta che ha sacrificato le proprie modeste velleità artistiche in funzione di un matrimonio che prospettava più roseo e vivace e un militare, malconcio, in perenne attesa della promozione, alla vigilia delle nozze d’argento; Maurizio Donadoni invece è Kurt, un cugino, amante segreto (?) della signora, faccendiere spregiudicato che ha dovuto, oltre che abbandonare moglie e figli, riparare negli Stati Uniti e in Australia per scappare dalla rete della giustizia e che, saldati i debiti a distanza, torna nell’isola che pare non esistere, o essere un prototipo ideale di una miriade di altri contesti suburbani. Il cinismo femminile supera ogni ragionevole crudeltà, così come la maschia e militare inflessibilità del consorte assume, sistematicamente, contorni onirici, commoventi, imbarazzanti. Un matrimonio dettato e celebrato sulla falsa riga di aspettative capaci di dare un ruolo e una stabilità alle reciproche frustrazioni e che nonostante affoghi, da subito, nella totale dissoluzione morale e sentimentale, si trascina comunque per lunghi cinque lustri, fino alla soglia delle beffe finali, ripetuti colpi di scena che vengono incassati, con estrema disinvoltura, dai tre boxeur, che seppur senza guantoni e senza mai venire a contatto, riescono reciprocamente e vicendevolmente a infliggersi colpi letali, con rara precisione e raffinatezza balistica. L’assoluta apatia di Alice, l’adolescente rabbia di Edgar, l’insolente allegra spensieratezza di Kurt rappresentano un microcosmo umano nel quale è difficile non riconoscersi, per alcuni versi, e impossibile non vergognarsi di somigliarvi. Un’opera che ha superato abbondantemente il secolo di vita, ma che si può allegramente riproporre, a patto, però, che in cattedra, anzi, sul ring, salgano professori, pardon, boxeur, capaci di trasformare una violenta e cruentissima battaglia all’ultimo uppercut in una devastante tragicomica contesa familiare.
