di Luigi Scardigli

PISTOIA. Benedetta Gomorra, altrimenti, certi tentativi, sarebbero potuti rimanere nei cassetti di chissà quali scantinati dei Bassi. E invece, il giovanissimo Marco D’Amore, si è presa la briga di catapultare, in un sogno, il dramma dei suburbi statunitensi e portarlo a due passi da casa sua, per ridisegnarne un affresco tutto napoletano. Il tentativo di rimettere le mani su American Buffalo - monetina americana dall’inestimabile valore, regolarmente acquistata da un autodidatta rigattiere senza acume alcuno da un fine intenditore -, è l’escamotage teatrale attorno al quale tre diseredati imbastiscono e pianificano un improbabilissimo furto. Della trama, dell’epilogo, dell’incipit, credeteci, non ce ne frega nulla: se vi preme, andate a vederlo, non ve ne pentirete; anche se per dovere di cronaca vi segnaliamo che sarà al Teatro Manzoni di Pistoia fino a domenica 17 dicembre, che è tratto da un’opera di David Mamet, tradotta da Luca Barbareschi, adattata da Maurizio de Giovanni e che vede in scena, oltre al regista, Tonino Taiuti, l’ala musicale del teatro napoletano e Vincenzo Nemolato.

Ci preme raccontarvi invece - e lo facciamo fieri e orgogliosi di poterlo fare – della bellezza musicale, adrenalinica, ansiogena, da crac di seconda mano, allungato con il bicarbonato, nella migliore delle ipotesi, dell’intera rappresentazione, in un napoletano comprensibile anche ai più riottosi nordisti, che comunque viene assolto in ogni circostanza proprio in virtù di quella teatralità che è lo slang partenopeo. In brianzolo, tanto per intenderci, ma nemmeno in siciliano, né in friulano, la resa sarebbe potuta essere altrettanto redditizia. Perché i tre protagonisti incarnano, con una straordinaria precisa approssimazione, le tre esistenze – ma solo quelle: gli altri che restano ai margini sono soltanto citati; nessuno si prende la briga di sdoppiarsi, è impossibile - di questo microcosmo nel quale si consuma tutta la tragedia. Un bottegaio illuso dalla grande fregatura (di là dal mare la chiamano sogno) americana, un garzone praticamente adottato dal rigattiere che per ora è riuscito a strapparlo dalle mucose della Camorra e un tossico alcolizzato che, in virtù di non si sa cosa, vanta il prestigioso pseudonimo di Professore, acerrimo nemico di Sasà, l’altro esperto di questo pseudo clan di scissionisti da due soldi che di euro riesce a guadagnarne tanti barando a carte, con la complicità di due lesbiche zoccole. Il quadro è questo: dentro, tutta la musica e la poesia di chi la merda, se non ha dovuto cibarsene, ne ha sentito in compenso maledettamente l’odore nauseabondo e sa come provare a fare per tenerla lontano non solo dai pasti, ma anche dalle narici. Fulmicotonico, divertente, geniale, come gli assurdi espedienti adottati per sopravvivere, proprio come si può e si deve anche rileggere il teatro napoletano, che non perde di vista, né di diaframma, la meravigliosa, unica, inimitabile ritmica semantica, ma che allunga lo sguardo anche lontano dalla commedia fatta in casa, quella leggendaria dei Cupiello, tanto per intenderci, pur senza allontanarsi molto dalle Vele; anzi, restando lì, a due passi, nel negozietto accanto, dove si vendono cianfrusaglie, biciclette con le ruote bucate, bandiere a stelle e strisce usate come tovaglie, con una radio transistor che non riesce a sintonizzarsi su nessun canale, anche se all’inizio, le note di tu vuo’ fa’ l’americano si distinguono perfettamente, dove tra la merce rubata, contraffatta e inutilizzabile c’è anche una moneta di American Buffalo, venduta a soli 180 euro, anziché la fortuna che vale. È la storia di Napoli, questa, che cerca riscatto dove non può trovarlo, ignorando l’arte che la glorificherebbe.   

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