PRATO. Chissà chi sia mai stato a presentare, a quelli di Punta Corsara, Shakespeare. In un primo momento, siamo convinti che l’abbiano scambiato per un pazzo (dalle parti di Scampia, poi, tra presunti e reali, il campionario è coloratissimo). Poi, però, quando qualcuno deve aver detto loro che quel tipo parecchio strano, in realtà, era uno molto, ma molto importante, nonostante non abbiano cambiato idea – anzi -, se ne sono fatti una ragione. E uno spettacolo, Hamlet travestie, che gira l’Italia ormai da tre anni, lasciandosi ovunque dietro una cortina di spontanea e applaudita simpatia. Come ieri sera al Fabbricone di Prato (si replica stasera, 20,45, domani, 19,30 e domenica, 21 gennaio, alle 16,30). Il riferimento amletico però è molto più complicato di quanto si possa immaginare, perché all’incipit shakespeariano dovete poi aggiungere la parodia anglosassone settecentesca firmata da John Poole e miscelare il tutto con una commedia napoletana di Antonio Petito, il Don Fausto.

Il trittico, filtrato dall’esperienza di Punta Corsara, (indispensabile alternativa e valola teatrale alla propensione criminale di troppi napoletani), affidata, fino a dieci anni or sono, all’accoppiata Marco Martinelli e Debora Pietrobono, che hanno poi a loro volta lasciato il timone in eredità a Emanuele Valenti e Marina Dammacco, aggiunge all’improbabile, ma gustosissima macedonia, quelle passate cromatiche che risiedono, quasi spontaneamente, nella lingua, nelle espressioni e nella gestualità fisica partenopee, uniche, inimitabili e spudoratamente funzionali, una chimica esplosiva che diventa spettacolo grazie alla regia di Emanuele Valenti, alla sapienza attoriale di Giani Vastarella e al resto della compagnia, momentaneamente orfana di Vincenzo Nemolato (impegnato con American Buffalo, di Marco D’Amore), sostituito, egregiamente, da Vincenzo Salzano e accompagnato, in questo affresco medievale napoletano dei Bassi, da Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Valeria Pollice e dai due (ir)reponsabili, Gianni Vastarella e Emanuele Valenti. Napoli: la famiglia Barilotto, particolarmente rumorosa, teatrale, scenica, è naturalmente costretta a convivere con il germe della povertà, dei debiti e con la maledizione di un figlio, Amleto, che è convinto di essere non tanto l’omonimo, ma la reincarnazione, del Principe di Dani-Marca. A risolvere tutto, ci pensa Don Liborio, ‘O Professore, che cerca di cacciare via il diavolo che si è impossessato del corpo del giovane Amleto, ricamando attorno alla famiglia Barilotto proprio la drammaturgia di Shakespeare. Le smorfie, i colori, l’atmosfera, la musicalità, stordente, che senza amplificatori oltrepassa di gran lunga i decibel consentiti, diventano e sono la reincarnazione di un’opera altrimenti intoccabile, alla quale ci si può consentire il lusso di avvicinarsi solo inchinandosi, dopo essersi tolti il cappello, o sbeffeggiandola così, in dialetto, con quella caotica e professionale teatralizzazione partenopea, con quei tratti somatici inconfondibili, quelle curve sempre provocanti, quei diaframmi disposti ed esposti alla melodia e alle litanie, con quella carica ironica, rassegnata e forse salvifica che solo chi convive con la precarietà riesce a trasformare in arte, ma con il patto, sottoscritto e non tacito, di non mancarle mai di rispetto, nemmeno per un istante e ad ogni passaggio: lo si deve al venerato Sciècspìr, anche se ormai, il suo Amleto, è uscito pazzo.

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