PRATO. Ribadiamo un concetto, che si racchiude in un aggettivo, precedentemente e orgogliosamente espresso da quando abbiamo avuto la fortuna e l’onore di imbatterci nel teatro di Saverio La Ruina: indispensabile. Nella dinamica, come nei contenuti, un laboratorio teatrale che si avvale, rapacemente, di parola, forma, luce, espressività, carica emozionale. Tutte cose diligentemente apprese alla Scuola di Teatro di Bologna, dove si è diplomato, certo, ma la palestra più grande e redditizia, per Saverio La Ruina è stata, lo deduciamo, non è scritto su alcun resoconto biografico, la terra, aspra, silenziosa, vendicativa e (im)memore della sua Castrovillari. Lo diciamo perché vederlo, per l’ennesima volta, all’opera (al Teatro Magnolfi di Prato, che gli ha dedicato un trittico; ieri sera, La borto), non possiamo in alcun modo sottrarci dalla sensazione che la sua prima professoressa sia stata una sua nonna o quella di un amichetto con il quale sarà cresciuto. Nella sua profondità, nella capacità d’immersione tra i meandri più occulti e sconfinati della paure e delle verità tenute per secoli a freno e sotto spirito, Saverio La Ruina estrae, come un solo un lungimirante ma infaticabile cercatore d’oro sa fare, l’essenza della materia, quella che viene asetticamente tramandata da generazioni e che ha trovato, nel suo teatro, un attento, rigoroso e tenerissimo interprete.

La comunione dei suoi testi diventa guida e materiale importantissimo per cercare di capire la storia frammentata di questo paese: le sue contraddizioni, espresse e inespresse, la sua tacita sottomissione a leggi non scritte, ma tramandate con il piglio e la fermezza che solo un poeta avrebbe potuto scalfire, mettere in discussione e condannare. Sono proclami di profonda scorrettezza politica, manuali di pronta e irrimandabile insurrezione, i testi di Saverio La Ruina, raccontati però con il tepore che si addice a un contesto familiare facilmente immaginabile e identificabile: il salone di una masseria dove il fuoco della legna fumante sotto il camino induce a raccolta i più piccoli del numeroso e modesto casato in religioso silenzio e ascolto delle parole della vecchia di turno, che ogni anno, nei paraggi del Natale, ripete, con il piglio e l’emozione di una prima, le solite litanie a sua volta ingerite in adolescenza. A casa La Ruina, però, molti anni fa, tra i marmocchi assorti a percepire, recepire e incamerare informazioni, c’era anche Saverio, che ha ascoltato e seguito attentamente lo svolgersi delle fila della memoria, non accontentandosi però di ricordarle e basta: ha deciso di lavorarci sopra, quando la vita gli ha consentito il lusso di allontanarsi dalla sua Calabria, per elaborarne la sconfitta, l’assurdità, il controsenso, il lutto e ridisegnarne i confini. Così nasce Polvere, Dissonorata, Mascuolo e fìammina, La borto, storie del sud, soprattutto di donne del sud, abituate a subire, con l’orgoglio di un’elezione imposta, più che immaginata, in silenzio, secoli di imposizioni, soprusi, violenze. Così nasce Saverio La Ruina, così nasce il suo teatro, in dialetto, antico, scolastico, che rende alla sua Calabria e alla sua ribellione i galloni di un comandante che ha deciso di non impartire ordini, ma sussurrarli; forse perché fioco, forse perché è così che si fa a teatro.

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