PISTOIA. Se ne trovano anche in Occidente e anche nel nostro piccolo paese – eccome! – famiglie come quella che trascorre una Lunga giornata verso la notte. Non è infatti così lontano dalla realtà provare a immaginare un padre fiero del proprio semifallimento (Arturo Cirillo), sposato con una donna ostaggio della tossicodipendenza (Milvia Marigliano), genitori di due figli (Rosario Lisma e Riccardo Buffonini) che non riusciranno in alcun modo a riscattare l’opacità genitoriale. Certo, negli Stati Uniti, un Paese con scarse identità e alla ricerca spasmodica di almeno una, la famiglia, certi quadretti sono più frequenti, soprattutto se a tinteggiarne i confini, fino all’esasperazione, claustrofobica, ossessiva, a volte surreale, è Eugene O’ Neill, drammaturgo americano con il quale il regista, Arturo Cirillo, ha voluto chiudere la trilogia (al Teatro Manzoni di Pistoia; si replica stasera, 3 marzo, alle 21 e domani alle 16) tutta statunitense del declino americano iniziato con lo Zoo di vetro, di Tennesse Williams e proseguito con Chi ha paura di Virginia Woolf, di Edward Albee.
Una casa, rifugio insicuro per tutti quelli che la abitano, dove il padre James (particolarmente dedito all’alcool, ma senza aver mai saltato una replica) è accerchiato dalla moglie Mary, in preda alla dipendenza da sostanze stupefacenti e dai due figli, James junior, inesorabilmente destinato al nichilismo senza possibilità di rinascita, alcolizzato e puttaniere e Edmund, fragile, succube del fratello e gravemente malato. Una famiglia che, contemporaneamente, si dilania e cerca, commoventemente, di proteggersi, in una giornata nella quale non succederà praticamente nulla, seppur tutto prenderà il sopravvento sulle singole, deboli, anemiche personalità dei quattro componenti, fino all'arrivo della notte, come molecola liberatoria della ansie diurne, visibili, discutibili. Ognuno alla tragicomica ricerca di se stesso, letteralmente scollegato dal resto del nucleo familiare, ma comunque infestato dal torpore che accompagna l’interminabile giornata di una famiglia che si ritrova comunque insieme sotto lo stesso tetto, anche se a maledire reciprocamente la presenza degli altri. Ma i genitori e i due figli, in realtà, sono soltanto attori, chiamati a rappresentarsi, direttamente, dai propri rispettivi camerini, posti sul fondale del proscenio, come pugili suonati perché piegati dai ripetuti uppercut sferrati loro in pieno volto dalla vita che ha deciso di non risparmiare, a nessuno dei quattro commedianti, nemmeno un dolore. È la follia tossica di Mary, il centro della scena, attorno alla quale ruotano le ignobili e false apprensioni del marito e dei figli, ognuno preda ideale del proprio fallimento, del proprio tragico epilogo. Sono tutti prigionieri di quella maledetta casa, buona come ricovero notturno, grazie soprattutto a una camera per gli ospiti che resta sistematicamente disabitata, se non per chi non riesce a dormire nella propria, ma inospitale di giorno, ravvivata soltanto da una bottiglia di whisky alla quale tutti i maschi della famiglia si avvicinano con psicotica passione. Una famiglia con ruoli ben definiti e stabiliti nella quale nessuno riesce a interpretare dignitosamente la propria parte, perché ognuno è attratto dall’idea persecutoria di fare altro, di essere altrove: un attore che prometteva benissimo e che ha finito per incartapecorirsi sulle repliche di commedie di facile approdo; una donna destinata forse ai voti monacali o come pianista e che ritrova la propria serenità solo quando assume droghe che riescono a scollegarla dai ruoli impostile dalla società e ricondurla alle stagioni dell’immacolata adolescenza e due figli senza arte, né parte, vittime di un’impostazione piramidale senza criteri geometrici, senza certezze morali. L’unica fortuna è che quella che va in scena è l’ultima replica, così che James, Mary, James junior e Edmund possano finalmente tagliare quel malefico cordone ombelicale di ricatti, paure, ritorsioni e angosce che li tiene legati e decretare così, in modo definitivo, irrevocabile, il fallimento della famiglia. E l’inutilità della commedia. Che è un piacere vedere, però, quando sul palco salgono un papà, una mamma e due figli così detestabilmente affiatati.