
FIRENZE. La linea di demarcazione tra la sobrietà e la follia si fa sempre più sottile, così come quella che separa, a teatro, la fuffa dai capolavori; alcune volte, per riuscire a distinguerle, occorre fare molta attenzione e non lasciarsi andare a emotività preconcette; si rischia grossissimo. Come ieri sera, ad esempio, quando ci hanno fatto accomodare nel retro dello Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, a Firenze e una volta tolti giacconi e cappotti, invitati a trasferirci nella sala attigua, inverosimilmente illuminata e riscaldata da rettilario. Ma non sarebbe potuto essere altrimenti; e noi, che avevamo storto il naso, ci siamo dovuti immediatamente ricredere, perché quel gioco aveva bisogno di queste accortezze, di quella promiscuità, di quella reciproca invasione di campi e ruoli, come in un vero e proprio laboratorio. Domenico Cucinotta, del resto, è un clown, e che clown, e come tutti, semiserio, onirico, un simpaticissimo burlone, ma di assoluto e impeccabile rigore, un traghettatore di sogni, un delizioso cantastorie di emozioni, un Attore con la A maiuscola.
Per convincersi che si abbia a che fare con un preziosissimo venditore di almanacchi basta davvero poco; basta che gli si dia il tempo di infilare un paio di calzini scuri, mettersi le scarpe e indossare l’impermeabile grigio con cui, tutti i giorni, Aksentij Ivanovic Poprysin si rinchiude, per volare altrove, nella sua miserrima stanza di consigliere titolare (poco più di un usciere) attigua a quella del Direttore e vivere così quella vita piena di appunti, Appunti di un pazzo (riadattamento, per la regia di Alessio Bergamo - prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana, Teatro dell’Elce, Cantiere Obraz, in collaborazione con Postop e il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi e la Regione Toscana -, di Diario di un pazzo, di Gogol), con i quali riuscire finalmente a evadere, costi quel che costi, ma senza la minima percezione del rischio che corre e che si materializzerà. In quel manicomio, asettico, dove ci si immerge con una lentezza e un trasformismo impeccabili, Domenico Cucinotta incontra tutti quelli con i quali si interfaccia quotidianamente, tutte quelle persone, animali e cose che razionalizzeranno la sua inevitabile e inesorabile follia: Daniele Caini, Alessandra Comanducci, Massimiliano Cultrera, Marco Di Costanzo, Erik Haglund e Stefano Parigi, che sono in un andirivieni spasmodico, geometrico, tridimensionale, le sue percezioni folli, le sue visioni: il Direttore, la figlia, i colleghi, le cagnette rivelatrici, le notizie che continuano ad arrivare, via radio, deformi e deformanti, così naturali che ritroverà, un attimo prima dell’elettroshock, della crocifissione apocrifa e dell’ultimo grido di speranza e dolore rivolto alla madre, esattamente tali e quali dove aveva deciso e creduto di lasciarli e da dove aveva deciso e creduto di partire. Una sofferenza antica, quella frustrazione, dello sdoppiamento, dell'irriconoscibilità, che invece di attenuarsi, è andata sistematicamente crescendo, fino ad assorbire, in modo esponenziale e ormai non più distinguibile, le due semicirconferenze che ruotano attorno all’esistenza: il mondo delle indagini e quello reale. Ma il cerchio delle illusioni, delle impressioni, del sottile ingombrante possibile malinteso artistico, quello delle maschere e dei mascheramenti, dei giochi e delle assurdità, dei tic e degli sketch, si spiana beato e diventa Teatro sotto la direzione, impeccabile, maniacale, surreale e sublime, di Domenico Cucinotta, il direttore d’orchestra che intrattiene, da clown navigato e convinto, gli spettatori quando si accomodano, per interagire con loro lungo tutta la discesa verso gli inferi, quella che conduce alla dissoluzione. Ma sopravvivere come gli sarebbe toccato fare, non aveva senso; tanto vale impazzire: sarà bellissimo.
