
FIRENZE. Poesia e dolore; solitudine. Luci, ombre, pittura; speranza. Corpo e muscoli; disciplina. Ossessione e musica; studio. Teatro. Emma Dante non si smentisce. Anzi, rincara le dosi, dolorifica e onirica, e nella circostanza, La Scortecata (Teatro di Rifredi: si replica stasera e domani, sabato 24 marzo), esaspera magistralmente il suo dispotismo, affidandosi però al macchiettismo di due meravigliose vecchie zitelle, Carolina e Rusinella, che resuscitano nei corpi incorruttibili e malleabili di Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola. Uno spettacolo potente, un portento spettacolare, ancora una volta minimale (due sedie, un tavolino sul quale poggia il plastico di una reggia e una porta coricata a terra, dalla serratura della quale passa il dito mignolo e un effetto luce, Cristian Zucaro, da far impallidire) affinché il pubblico non subisca distrazioni e si concentri sul cono di luce che illumina smorfie e bicipiti, che amplifica lo slang, che renda il giusto onore a motivi musicali passati oltraggiosamente in cavalleria, che si genufletta alla poesia di immagini carioca e che abbia, come regalo conclusivo, se non la consapevolezza, almeno l’illusione di assistere a una mostra del Caravaggio.
Il Teatro di Emma Dante è questo, del resto, e non da ora, da sempre. Un Teatro che si rinnova tornando indietro, esasperando lo studio dei classici e riproponendoli, con la freschezza nichilista, senza dover confidare nell’interpretazione di altezzosi ronconiani. Un saggio multietnico, terribilmente e dolorosamente contemporaneo, che rispolvera un cantore di modesto lignaggio, Giambattista Basile, che accanto alle sue novelle, Lo cunto de li cunti (al quale si ispira, nemmen tanto liberamente, Emma Dante), aggiungeva, inorridito, come la società (e siamo nel XVII secolo) fosse nelle mani di buffoni regalati, furfanti stimati, poltroni onorati, assassini spalleggiati, zanettoni patrocinati e uomini dabbene poco apprezzati e stimati. Ma l’impegno civile, la presenza sul territorio e la controinformazione di Emma Dante passano da una cruna non contemplata dall’ordine precostituito, come da sempre succede al Teatro, del resto, che ha sistematicamente in gioco la grande occasione di rovesciare l’ordine, costruendo un universo perfettamente parallelo nel quale azioni e reazioni si muovono con ossessiva precisione ritmica e geometrica. Con la grazia, la precisione, l’armonia, la tragicomicità dei due mattatori in scena, D’Onofrio e Maringola, assemblati e incartapecoriti nelle vesti, lacere, delle due vecchie, vecchissime, zitelle, che ancora non hanno perso la speranza che un giorno, un principe, bussi alla loro porta e che per questo trascorrono il tempo, infinito, che è stato loro ancora concesso, succhiandosi, psicoticamente, il dito mignolo, affinché possa passare per la serratura della porta e abbindolare il nobile forestiero di turno, il re patron del piccolo borgo e dopo una notte di passioni, provare, scortecandosi, a riprendersi tutto il tempo perduto, a rivendicare una vita minore, a ringiovanire.
