
CALENZANO (FI). Ha riposto nei due cassetti sventrati da chissà quale armadio i calcinacci di un bombardamento qualsiasi e dopo aver ridotto la rete da letto pieghevole e aver appoggiato ad un lato del tavolino le due sedie libere da orpelli dolorosi, ha lasciato la scena, prendendosi tutti gli applausi possibili e immaginabili che il pubblico del Teatro Manzoni, più noto come il Teatro delle donne, nella desolatissima landa fiorentina di Calenzano, ha voluto decretarle. Gli studi matti e disperatissimi di danza classica le hanno ingentilito il volto e i movimenti; per la mimica, il diaframma e i tempi teatrali, è dovuta passare dall’Accademia del Piccolo di Milano di Giorgio Strehler, dove si è diplomata e dove ha avuto la fortuna di incontrare anche Giulia Lazzarini, che deve averla artisticamente adottata, visto il candore e la forza delle parole. Nei Monologhi dell’atomica, che l’attrice genovese ha estratto da Preghiera per Cernobyl, di Svetlana Aleksievich e Nagasaky, di Kyoko Hayashi, prodotto da Le Imperdonabili e che porta in scena, rigorosamente nei Teatri di nicchia e, possibilmente, nelle scuole, da due anni, Elena Arvigo si presenta sul palco con la tuta anti radiazioni e la maschera antigas.
Sono quelle che avrebbe dovuto indossare il marito la mattina del 26 aprile del 1986, vigile del fuoco a Cernobyl, della donna che anima il primo set dello spettacolo. Una riflessione apartitica – le va dato atto -, non certo apolitica – parlarne è una scelta di campo, nettissima -, sui disastri atomici, annunciati, compresi nelle commesse planetarie, possibili contrattempi evolutivi, o mali necessari, come vollero spacciare per tali, gli Americani vincitori, le due bombe su Hiroshima e Nagasaky. Ma non è della guerra che vogliamo parlarvi – lo abbiamo fatto, lo facciamo e lo faremo sempre -, anche se Elena Arvigo, questo spettacolo, lo ha fatto da militante. Ci preme raccontarvi quella meravigliosa sottotraccia dalla quale prende spunto e che rovescia l’angolazione della tragedia da un punto di vista non documentato dalla storia e nemmeno dai grandi network: il dolore sottile, lancinante, inconsolabile e quasi mai risarcito delle donne che, occorre ammetterlo, sono mosse decisamente meno degli uomini da prurigini bellicose. Anzi, sono proprio spesso loro, le donne, il pretesto attorno al quale gli uomini, in debito di stima, successo, notorietà o semplicemente chimica, scatenano gli inferni. Ma non è neanche del machismo represso, dell’omofobia o dei femminicidi che ci preme fermarci a riflettere, anche se ogni occasione è buona. Vogliamo parlarvi di Teatro, del Teatro, impegnatissimo, vero, ma delizioso, sussurrato, genuflesso, in termini di rispetto e vocazione, preghiera e perdono, dolore e riscatto, di Elena Arvigo, quarantaquattro anni il prossimo 28 aprile, che balbetta inebetita dalla disperazione nel vedere trasfigurare e poi morire il proprio marito sedici giorni dopo l’esplosione nella centrale nucleare russa, così come non si capacita di essere una delle pochissime sopravvissute alla seconda, e auguriamoci ultima, nucleare sganciata, a falsi fini pacifisti propagandistici, sugli uomini del Giappone. Nel mezzo, altri due riflessioni più brevi, sempre di protagonisti minori, antiprotagonisti, sugli effetti devastanti delle esplosioni atomiche: un giovane militare spedito obbligatoriamente a Chernobyl a ripulire calcinacci velenosissimi e due fratellini, che non si capacitano di dover evacuare per altra destinazione. Quattro storie anonime, quasi ignobili, apostroferebbe Francesco Guccini, che non trovano spazio altro che nel ricordo, struggente, dello spettacolo di Elena Arvigo, che ricongiunge l’amore e la morte con un sottilissimo, ma robusto, filo narrativo.
