PRATO. Solo quando si diventa genitori si scopre il terzo lato dell’amore, che è il volume, o la profondità. Solo allora. I sentimenti che ci brulicano l’esistenza fino a quel momento sono soltanto un preparativo, ma che non rendono, perché non possono, minimamente l’idea. L’idea, invece, questa idea universale, che non conosce cromatismi epidermici, idiomi, latitudini, la rende alla perfezione Livia Giunfrida, (con)fondendo due novelle leggendarie: il Vangelo e Pinocchio. Gioia (ieri sera, 30 marzo, ultima replica al Fabbrichino di Prato), sottotitolata Via Crucis per simulacri, è una straordinaria novella, siciliana per benefiche circostanze attoriali, che la registra/drammaturga porta in scena dopo aver lavorato anni e anni in carcere, a diretto contatto con i carnefici di ieri, che a volte, si sono trasformati in vittime, portando sulle loro spalle e su quelle delle loro madri, in particolare, la Croce del Golgota.

Ci adeguiamo con piacere alla linea apolitica che Livia Giunfrida tiene a perseguire con il suo spettacolo, provando a tenersi lontana dal teatro civile e preferendo ai proclami la totale immersione del corpo, dell’anima e della voce, con il risultato, magnifico, di uno spettacolo magistrale. A supporto di una maiuscola interpretazione ci sono, come elementi collaterali funzionali fino all’indispensabilità, le mani e le idee di un team particolarmente assortito e affiatato, con le scene e le animazioni kubrikiane di Alice Mangano, i dipinti guttusiani di Nicola Console, le luci antipsichedeliche di Roberto Innocenti, le antiche arie dub/musicali di Andrea Franchi e l’assistenza di Giulia Aiazzi per un concerto finale che vale la pena raccontare e raccomandare di andare a vedere. Gioia è il nome del figlio, di un figlio qualsiasi di una mamma qualunque; potrebbe essere Gesù, raffigurato, con una vaga ma insistente somiglianza a Che Guevara, figlio del mistero creativo per antonomasia, crocifisso dai suoi detrattori, giustiziato dal Capitalismo, come il famoso burattino di legno raccontato da Collodi, figlio di un desiderio e una magìa e distratto fino al paese dei balocchi da compagnie sbagliate. Ma Gioia è soprattutto - e lo sarà sempre – figlio di sua Madre, che lo amerà e proteggerà per tutta la vita. Al di là della buona e/o cattiva strada che decida di imboccare, oltre ogni ragionevole e più o meno ripagata aspettativa. La Madre di Gioia, che altro non può fare, nonostante non lo gradisca molto, perché il teatro non la convince un granché, che raccontare il suo Amore, decide di partire dall’inizio. Seguendo tutti i suoi passi, fino alle sue scelte: profetiche, sventurate, eterne. La litania sicula non abbassa mai il tono dello slang; la compenetrazione recitativa è sistematica; le immagini che scorrono lungo i due pannelli bianchi che dividono in due il palcoscenico facilitano gli apparentamenti storici e umorali; la trasposizione fisica e quella del diaframma, tra Madre e Gioia, sono catartici, totali, profondissimi e la parziale incomprensione di alcuni vocaboli non appesantisce lontanamente il gusto, indiscutibile, artistico, della rappresentazione. Anzi. Livia Gionfrida si carica sulle spalle tutto il peso della maternità e la conduce dall’altra parte del fiume, guadandolo con il rispetto, la circospezione e il coraggio che si convengono, accompagnando gli spasmi vaginali fino alla crocefissione con la dignità e la forza che solo una Madre, la Madre di Gioia, può avere e che non avrà alcuna difficoltà a riconoscersi nell’eleganza, nella preparazione e nell’abnegazione di un’Attrice, un’Attrice come Livia Gionfrida.

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