PRATO. Molière, probabilmente, era davvero lungimirante o il genere umano, il mondo e le sue varie sfaccettature esistenziali, da lì in poi, di progressi, ne han fatti davvero pochi. Dove alberghi la ragione, poco importa, ma ci è parso necessario fare questo piccolo incipit per iniziare a raccontarvi Il misantropo, opera anomala del drammaturgo francese prodotto da Elsinor Centro di produzione teatrale, tradotto da Cesare Garboli, riadattato dalla regista/pianista Monica Conti e che sarà replicato ancora due giorni al Fabbricone di Prato. Il rigore morale di Alceste (Roberto Trifirò) è noto, così come la sua ostinata intransigenza – che lo condurrà alla misantropia - nel non sottomettersi, mai, ad alcun compromesso. A patto che a chiedere eccezioni non sia l’amore, o meglio, il desiderio, che si incarna nella bella Celimène (Flaminia Cuzzoli), che nonostante possegga, o sia posseduta, da tutti i detestabili vezzi e vizi della società, esercita, universalmente, quell’attrazione fatale, che coinvolge intorno alle sue gonnelle (e ai suoi commoventi polpacci) tanto gli intellettuali che gli stolti borghesucci.
Rileggerlo, Il misantropo, e catapultarlo come se niente fosse trecentocinquanta anni più in là senza effettuare ardimentose e rischiosissime detrazioni non è semplicissimo. Lavorare sotto traccia però, è possibile e riconosciamo volentieri i felici risvolti dati al riadattamento dalla regista a questo dramma shakespeariano, più che di Molière, dove l’inconsistenza esistenziale ricercata da Alceste troverà rifugio e patria proprio dove la ragione, seppur dovrebbe – lì, non riesce proprio ad attecchire. Lo spogliare la trama per rivestirla con abiti e arie che nulla hanno a che vedere con quella, né con alcun’altra epoca, è decisamente la cosa più interessante di questa rappresentazione, forse un po’ troppo irrigidita nei suoi tratti estremi e non sempre felicemente decontestualizzata, ma che si lascia osservare per la gradevolezza del piglio dialogico con il quale gli otto protagonisti si muovono lungo il perimetro della frequentatissima sala di Celimène, con una condivisibile assoluzione alla vanità femminile, quasi sempre ricercata e agognata dal despotismo maschile solo per essere manipolata fino all’annientamento. I cinque atti originari si riducono, sul palco, a novanta minuti di rap gradevole, dove a farla da padroni sono i vari sentimenti che agitano i singoli protagonisti: gli amanti per eccellenza, i corteggiatori spudorati, le donzelle meno appariscenti che si augurano che la bellezza della loro invincibile rivale appassisca quanto prima e l’amicizia, saggia, talvolta opportunista, ma presente e intramontata. Filinte, Oronte, Eliante, Arsinoè, Acaste e Clitandro (rispettivamente Davide Lorino, Nicola Stavalaci, Angelica Leo, Stefania Medri, Stefano Braschi e Antonio Giuseppe Peligra), sono gli strumentisti che agitano le scene (Andrea Anselmini) nel chiaro/scuro (Cesare Agoni e Rossano Siragusano) abbigliato casual terzo millennio (Roberta Vacchetta) sulle note di Giancarlo Facchinetti.