
Un PISTOIA. La linea di demarcazione tra memoria storica e finzione, a teatro, più che labile, è inesistente. Certo, per saggiarne a pieno il peso, occorre sapere l’inglese, ma questo, per fortuna, è un problema che ci ha condizionato solo questa sera, quando siamo stati costretti a tenere il naso all’insù, rivolto sul telone della sala del Funaro, per leggere le simultanee offerte dalla direzione del centro culturale pistoiese, invece che concentrarci sui marionettismi di Mark Down e della sua Henry – Memorie teatrali d’oltretomba. Pazienza. Il messaggio, il segnale, l’offerta della nuova produzione del Blind Summit sono comunque arrivati a destinazione, anche a noi, che abbiamo puntualmente riso a scoppio ritardato rispetto alla maggioranza degli spettatori forniti di una conoscenza, almeno dignitosa, dell’idioma britannico e che non hanno dovuto leggere cosa stesse dicendo, il regista, in azione come protagonista con i due assistenti Fiona Clift e Tom Espiner, per capirlo e apprezzarne l’humor.
Anche se di umoristico, c’è ben poco, in questa rappresentazione, che prende a spunto una full immersion in una masterclass nella quale si celebra l’incontro tra il celebre attore Henry Chessel, in punto di morte, e suo figlio, ignorato praticamente tutta la vita. Il tono anglosassone è chimicamente e inevitabilmente tragicomico, a cominciare dalle prime lezioni, quelle che il maestro impartisce ai sue due allievi, in particolare nel provare a dare vita a un carrello della spesa. Ma dopo aver letto le dieci raccomandazioni/comandamenti per un usufrutto corretto della rappresentazione, le luci si sono abbassate e gli oggetti hanno iniziato a prendere forma, anima, coscienza, parola; primo fra tutti, ovviamente, la maschera deformata e deformante del vecchio e malandato Henry Chessel - un agglomerato meraviglioso di sacchetti della spazzatura -, deturpato dalla malattia che non gli ha comunque affievolito il tabagismo. Il dialogo, surreale (?), inventato (?), teatrale (?) tra il padre e il figlio sono il pane che sfama lo spettacolo, al quale contribuiscono, proprio nella finzione e funzione marionettistica, i due allievi. È una Caporetto annunciata, un inevitabile tragico epilogo, nel quale non si riesce a distinguere – perché non si deve -, il falso dal vero, la verità dalla menzogna, alimentando un feed back che non può non essere accolto che all’interno di un teatro e nel bel mezzo di una rappresentazione. Il vecchio padre, infatti, muore nove volte nella sua ultima settimana di vita: tutti i giorni, comprese due imprevedibili e impreviste pomeridiane e ogni volta, assistendo alla propria fine, non riesce a sentirsene appagato, soddisfatto. Il tarlo attoriale che lo ha perseguitato una vita intera regalandogli successi e glorie, anche nel momento dell’irrimandabile dipartita, entra prepotentemente in scena, variando, ogni volta, i movimenti dello straziante saluto. Sul fondo, resta, stavolta senza fili e maschere, il nichilismo reale di un rapporto tra un padre e un figlio che non si è mai consumato, che non ha potuto difendere mai l'uno e l’altro dalla vita e dalle sue insidie. E qui, per intristirsi, l’inglese non serve a nulla.
