
FIRENZE. Quando si imbocca il viale del tramonto, verosimilmente breve e non sempre alberato, abbiamo l’opportunità, quasi sempre inconsapevole, di voltarci indietro. E guardare. Così hanno deciso di fare, dietro esplicita richiesta del regista, Roberto Bacci, Giovanna Daddi e Dario Marconcini, che si sono prestati a dare parola e scena ai loro ricordi, a volte sfumati dall’età, di una vita, la loro, vissuta nel teatro. Insieme. Mano nella mano, paura nel coraggio, per arrivare sul limitare del capolinea e contare le fermate, la gente salita a bordo, quella scesa, con loro due sempre lì, decisi e convinti di arrivare fino in fondo. Insieme. Quasi una vita – sottotitolato Scene dal chissàdove, ma anche, in omaggio a Bergman, Scene da un matrimonio – è il dubbio amletico che può, che deve, o almeno dovrebbe, interrogarci, ogni tanto, sui nostri confini, sulle nostre consapevolezze, sui nostri bilanci. Stasera, domenica 13 maggio, terza e ultima replica, poi, il Teatro Studio Mila Pieralli, che l’ha ospitato in uno dei suoi meccanismi scenici matrioskali, chiuderà i battenti della stagione.
Un congedo tragicomico, con la memoria che scivola sui dettagli, s’increspa, indi si spiana beata e specchia, nel cuore vasto dei protagonisti, la loro splendida vita turbata. Con i due vecchi infaticabili mattatori, in questo percorso a ritroso che dovrà decidere l’ultimo tratto di strada, ci sono anche quattro anime: coscienza, memoria, tempo e morte (Elisa Cuppini, Silvia Pasello, Francesco Puleo e Tazio Torrini), che scandiscono, con candore e sadismo (vestiti di bianco), con forza e inganno, il peso e il tempo della consapevolezza. Una clessidra che conta i granelli di sabbia che cadono, ritmicamente e inesorabilmente, da un emiciclo a quello sottostante, contando le porte chiuse e aperte durante il corso degli anni: le strade prese, imboccate e quelle scartate; le occasioni vissute, vinte e perse, e quelle lasciate agli altri e un destino che non li ha mai allontanati e che li vede, ora, sul limitare d’occidente, a stringersi forte e baciarsi, pudicamente, sulle labbra. Erano sul ponte, la prima volta, quando lui, dopo averla abbracciata alle spalle e sfiorate le mani, si prese la licenza di allargarle il cappotto, sollevarle la maglia e toccarle i senti? Ma no, stavano in un giardino e lei, dopo aver poggiato le spalle ad un cancello, lo ha guardato negli occhi e si è fatta promettere amore. Per l’eternità. Chissà, in verità, la versione ufficiale e reale, potrebbe essere un’altra, la terza non detta, ma che importanza ha! Sono lì, ora, segnati indelebilmente dal tempo che è scivolato loro addosso, sollecitati a resistere da paggetti anfetaminici, da coscienze incorruttibili, da patti sottoscritti e dimenticati, da conti che prima o poi andranno inesorabilmente chiusi. Si muovono con la circospezione dell’età, Giovanna Daddi e Dario Marconcini, come due pugili stremati che al quindicesimo gong preferirebbero abbandonare il ring lasciando il pubblico pagante in sospeso, con il dubbio di sapere chi, tra i due contendenti, avrebbe avuto la meglio. Hanno dato spettacolo una vita intera, per ben quattordici riprese: ora sono stremati, preferiscono abbracciarsi e riposarsi. Attorno al quadrato della vita e della scena, che sono esattamente la stessa identica cosa, non ci sono le corde elastiche, ma una porta, con due cornici, dalla quale uscire e dalla quale, chissà quanti anni prima – quaranta, cinquanta? – sono entrati, decisi di darsele di santa ragione.
