
PISTOIA. Siamo in un salone di una casa di cura per pazienti con problemi comportamentali. No, siamo a teatro, che è la stessa cosa, che dovrebbe essere la stessa cosa. Perché lì, in quella struttura, come sui palcoscenici di tutto il mondo, la linea di confine è e deve essere sottilissima, quasi invisibile, da superare ogni volta che se ne sente la necessità, ma anche quando la vita, per cause di inerzie insopprimibili, semplici coincidenze, casualità, ti sospinge oltre, mandandoti poco più in là, che è comunque altrove. Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo, artefici psicotici e ansiogeni di Delirio Bizzarro, andato in scena nel salone del Funaro, a Pistoia, all’interno della rassegna estiva Pistoia Teatro Festival, ne incarnano esemplarmente le sagome, frantumando, fino alla polverizzazione, quelle poche certezze che ci offrono l’illusione di non essere preferibilmente ricoverabili. Un domicilio coatto in una struttura preconfezionata nella quale, ognuno di noi, se ospitato, troverebbe certamente i propri spazi e sarebbe in grado di costruirci, all’interno, un suo habitat, se non ideale, quanto meno capace di tenerci lontano dal calice della tentazione estrema più suggestiva, il suicidio, che nella rappresentazione dell’altra sera nel circolo culturale pistoiese ha assunto connotati surreali, impalpabili, onirici.
Giuseppe Carullo è un paziente; Cristiana Minasi un’operatrice. La sintonia che li accomuna in questa gabbia, coercitiva per lui e professionale per lei, è comunque troppo armonica e musicale per esaltare erroneamente la forza di volontà del primo e la capacità terapeutica della seconda. Entrambi, in realtà, hanno reciprocamente bisogno dell’altrui diaframma per sentirsi vivi, perché tutti e due, fuori da quel contesto, non hanno saputo sviluppare una personalità che potesse tenerli al riparo da quella vicendevole dipendenza. Giuseppe, fuori dalla struttura, dovrebbe essere guardato a vista; Cristiana, lontano da Giuseppe, non ha saputo mettere in piedi una condizione privata alternativa alla sua docenza. E solo lì, nella casa di cura, si riconoscono, si emancipano, si realizzano; esistono. Lui, come il dizionario della depressione insegna, è un martello pneumatico che ostenta tutte le proprie incertezze, cercando inutili e illusorie conferme; lei, è la sua panacea, ma contemporaneamente, anche e soprattutto, la propria negazione, la propria disgrazia. La deambulazione approssimativa, la tipicità dei contenuti, l’inaffidabilità degli sguardi esasperano, inverosimilmente, entrambe le indispensabilità, ma in un abbraccio che, proprio perché infinito, non è deontologicamente classificabile, ma morale, solidale, umano, trasformando una condizione psichiatrica in una umana, tenera, incatalogabile, non ascrivibile a nessuna delle condizioni tipiche. Una passione diversa, disabile, pirandelliana, che offre l’opportunità a qualsiasi contatto normodotato di (ri)scoprire l’essenza delle passioni, la naturalezza dell’avvicinamento, il calore dei sentimenti, la grazia e la sconfinata bellezza dell’amore fuori da ogni protocollo, che compensa tutte le frustrazioni, fino a resuscitare. Una rappresentazione ansiogena, quasi irritante per la sua disarmante semplicità, figlia e frutto di studi e ricerche, interviste e osservazioni, soprattutto per tutti noi, che siamo fuori dal cancello della casa di cura e che abbiamo continuamente bisogno di premi e soprammobili per convincerci di essere sani. E anche vivi.
