
SESTO FIORENTINO (FI). La lettura dell’autrice e la rilettura del suo quinto e ultimo testo sono indispensabili per gustare fin nel midollo e in tutta la sua musicalità 4:48 Psicosi, in scena (si replica stasera e domani, 30 settembre, alle 21) alla Limonaia di Sesto Fiorentino. Ma anche ignorando il breve tumultuoso percorso artistico di Sarah Kane, culminato (venti anni fa) a soli 28 anni con il suicidio e glorificato solo dopo la sua morte, dopo questa rappresentazione (diretta e disegnata da Dimitri Milopulos e tradotta da Barbara Nativi) si rientra nel nostro brutale anonimato reso ancor più commovente da fragili matrimoni, famiglie senza identità, macchine comprate a rate, casette con mutui devastanti, figli sconosciuti e sogni puntualmente tenuti ben nascosti sotto chiave nel cassetto, con qualche interrogativo in più e qualche illusione in meno. A cominciare dalle mille anime che albergano in ognuno di noi, che sono quelle che chiedono e vorrebbero che non si chiedesse, che rispondono e che preferirebbero tacere, che si concedono, ma vorrebbero negarsi.
Angoli scossi dalla paura, dalla voglia di non arrendersi, da una lacerante e corrosiva depressione che si materializzano su un’improbabile scacchiera sulla quale si muovono, incrociandosi, talvolta, spesso evitandosi, due pedine, anzi due alfieri, visto che spesso la percorrono trasversalmente (Valentina Banci e Sonia Remorini), istigate a delinquere e rasserenate, ma mai del tutto, fino al gesto più estremo, dalla zona d’ombra meno appariscente ma decisamente più psicotica dell’intero sistema celebrale (Teresa Fallai), che osserva, guida e coordina gli scatti ansiogeni delle due sorelle seduta o distesa su un divano, posto sul limitare del proscenio, come parete ultima e più lontana di un cranio adagiato, a forza, sul lettino psichiatrico. La polifonia, a cappella, dell’intera introspezione triangolare, gode di una battitura esemplare, di ritmi e cadenze geniali, di un coordinamento labiale e lessicale perfettamente sintonico e offre, contemporaneamente, tre aspetti distanti anni luce tra loro, tre mozioni di sfiducia che convivono, però, da complici navigati, fino alla legiferazione della volontà di interruzione, all’interno della stessa letale esaltazione, alimentando vicendevolmente le rispettive paure ed esaltandone cinicamente l’invalicabilità dei limiti. Anche le tre affezioni mentali sono esemplarmente rappresentate: Valentina Banci, bellissima, elegante, sofisticata, la proiezione più femminile e corrosa dell’anima della protagonista, la più scossa; Sonia Remorini, l’anello adolescenziale della catena interiore, la sognatrice, il vettore anelante al futuro, l’ultima ad arrendersi all’ineludibile; Teresa Fallai, monumentale, trasparente, pittorica, con un celestiale e diabolico linguaggio del diaframma, esemplarmente sinfonica. È la loro simbiosi, la triunivoca corrispondenza, gli elastici dai quali vengono tese e sottese, le geometriche invasioni di territorio, la perfetta sintassi con la quale esaltano e sovrappongono sistematicamente il pensiero più debole, che esaltano lo spettacolo ancor prima di un’insindacabile correttezza politica e un’altrettanto indiscutibile affabilità interpretativa. Un lavoro minuzioso, prezioso, importante, teatralmente impeccabile, scandito da un mastodontico orologio chapliniano con i suoi ingranaggi ben visibili che rielabora, a distanza di venti anni, un inevitabile, drammatico, meraviglioso suicidio.
