
MONSUMMANO (PT). Non ha bisogno di simultanei, né di abili storiografi, come di esperti gondolieri, o traghettatori di fama carontiana, Boccaccio; le sue opere, il suo Decamerone, si riciclano automaticamente: è la storia che parla la sua lingua. Però, un abile intrattenitore, un cronista eccellente non guasta affatto. E allora, seppur genovese a marchio di fabbrica, Tullio Solenghi, che si è fatto ossa e palcoscenico con la scuola classica, sembra davvero essere il crooner ideale di questa rappresentazione teatrale del volgare d'epoca più comprensibile, che ha aperto ieri, 23 ottobre, la stagione al Montand di Monsummano Terme, in un teatro, nonostante le lusinghe televisive dittatoriali del calcio che conta, pieno come se il piccolo schermo avesse mandato in onda una partita del Forrottoli, anziché della Juventus.
Certo, un reading di teatro popolare, con il minimo indispensabile, anzi, qualcosa meno. Ma il fascino sempiterno delle novelle del certaldino e la sapienza scenica del fondatore di una delle band più affermate della comicità italiana (Trio Solenghi, Marchesini, Lopez), coadiuvate dalla regia di Sergio Maifredi per un racconto italiano in tempo di peste, hanno provveduto a dare, alla serata, la piacevolezza delle migliori occasioni e hanno giustificato e premiato i temerari della notte valdinievolina, a fine rappresentazione, per essere usciti di casa. Tra le cento novelle, quelle scritte da Giovanni Boccaccio in una villa fiesolana piena di femmine di lusso e altri tre ragazzi della miglior società, mentre giù a valle, a Firenze, la peste decimava la popolazione, l’amico inseparabile di Lopez e della Marchesini, in combutta con il regista, ne ha scelte sei (Chichibio e la gru, Peronella, Federigo degli Alberighi, Masetto di Lamporecchio, Madonna Filippa e Alibech), uno spaccato oggettivamente esaustivo della polifonia popolare e proletaria di Boccaccio, che consegnò indistintamente a tutti, anche agli umili, agli ultimi, ai villici, e non soltanto ai duchi, ai prìncipi e ai re il proprio amplificatore. Un narratore geniale, licenzioso oltre ogni ragionevole pudicizia, sarcastico, femminista, corriere epicureo durante la mattanza pestifera, l’attualità di Boccaccio, per questa riproposizione a distanza di circa sette secoli, non poteva non meritare un corriere degno della sua profonda leggerezza. E allora, a chi, meglio che al longevo settantenne genovese, affidare il compito di far scoprire e riscoprire a chi tra il pubblico, del conterraneo Boccaccio, ne sa davvero troppo poco perché il minimo sindacale, prima ancora dell’onore deontologico, non ne sia compromesso? Una lettura nel pieno rispetto originario di alcune storie che sono già state depositate negli annali dell’eternità e che ieri sera hanno trovato il loro consono splendore in una cornice, il teatro, che meglio di ogni altro contesto esalta l’arte. Prima del congedo sotto unmeritato, inevitabile, scroscio di applausi, Tullio Solenghi ha voluto salutare l’indimenticata e indimenticabile amica Anna Marchesini (un tragicomico aneddoto, quello del Trio impegnato a Roma che fu costretto a interrompere lo spettacolo per una telefonata anonima che segnalava un ordigno in platea e che il pubblico scambiò per una originalissima boutade) e il maestro Raimondo Vianello, altro sacrilego insostituibile che – gli ha raccontato Pippo Baudo - sedata la moglie in preda a una delle tante crisi depressive sfociata nel tentativo di suicidarsi gettandosi dal balcone, decise di andare a mangiare una pizza nel ristorante sotto casa. Uscendo, disse al portiere: se cade qualcosa dal terrazzo, è roba nostra. Altri personaggi; boccacceschi.
