FIRENZE. Da Vivaldi a Michael Jackson, passando per Lucio Battisti e Gigi D’Alessio. Dalla sacralità della classica, all’irriverenza del pop, attraverso le note d’autore e quelle trash della new melody napoletana. Ci sono voluti secoli di musica perché il cavaliere riuscisse a liberarsi della propria armatura e donarsi in sposa al proprio amato. Non ci sono refusi, né improvvidi arrocchi di vocali: è solo la nuova fase, lunare, di Filippo Timi, autentico fuoriclasse, che si è presentato in prima nazionale al pubblico della Pergola, a Firenze (si replica stasera, domani e domenica pomeriggio, 28 ottobre) con il suo nuovo Un cuore di vetro in inverno. Al suo fianco, in questa cavalcata guevariana contro i timori, le paure, i pregiudizi, le ombre, i rischi di contagio, la solita meravigliosa policroma Marina Rocco, stavolta angelo custode milanese di spudorata memoria monroeiana; Michele Capuano, uno scudiero sognante napoletano che si è poi dovuto accontentare; Andrea Soffiantini, un timido menestrello della pianura padana capace di stupire e Elena Lietti, una sgualdrina amarcordiana che distribuisce, senza alcuna diplomazia, medicamenti per l’anima e per il corpo.

Un capolavoro introspettivo che si inchina ai suburbi periferici di Pier Paolo Pasolini rendendo all’autore la sua eternità senza mai inorgoglirsi di volerlo e poterlo fare. Con il solito incrollabile, sublime senso umoristico, trascendente, blasfemo, reso inconfondibile da quel diaframma da incallito tabagista umbro che si burla di sé, della presunzione umana di essere indispensabile e non, come dovrebbe, umile servitrice alla causa dell’amore. Un’opera straordinaria, Un cuore di vetro in inverno, prodotto dal Teatro Franco Parenti (dove si trasferirà dopo il battesimo fiorentino) e dalla Fondazione Teatro della Toscana, che diviene tale anche grazie e soprattutto alle solite sontuose accortezze sceniche, che sono quelle garantite dal lavoro di Camilla Piccioni, Benedetta Frigerio, Alberto Accalai, Mattia Fontana, Lorenzo Bernini, Emanuele Martina e Caterina Airoldi, la macchina teatrale che ruota attorno alla sontuosa irriverenza di Filippo Timi, ancora una volta, una volta di più, principe incontrastato dell’Agorà. Con rigore e tenerezza, ironia e onirismo, con quella capacità di confondere, sistematicamente, il sacro con il profano, senza perdere mai di vista il plot che consegna alla rappresentazione i crismi, indiscutibili, della comprensione e consegnando agli spettatori quel libricino prezioso che sono la lista dei nemici che crediamo di dover combattere e sconfiggere, dimenticando che sono gli stessi che ci siamo costruiti, noi, nel tempo e con il tempo, obbligandoci a tenzoni cavalleresche che ci servono per sentirci impegnati, vivi, lasciandoci soli nel nostro inesplicabile destino che ci avrebbe invece condotti, e volentieri, altrove. Lontano da riletture classiche, Filippo Timi, stavolta, che non dimentica comunque furiose e satiriche incursioni bibliche, dal pisello ad Adamo e il cervello a Eva, dal bimbo di Maria nato morto, tutto condito da irriverenti inflessioni dialettali e giochi di diaframma che sono gli studi classici di Demetrio Stratos a Gigi Proietti, accorcia i tempi, evita, opportunamente e con pregevole umiltà, di dilungarsi in rischiosi e fuorvianti fuoriprogramma, consegnando comunque al lavoro la meraviglia del Teatro che sfiora, tocca e percuote ogni angolo, fino a sorridere della probabile impermeabilità e inutilità del messaggio, che sono, al tempo stesso, magma prezioso della sua adorabilità. Un principe antimachiavellico, un guerriero vincente delle proprie ombre solo quando si accorge di essere stato sconfitto, consapevolezza che gli consegna l’opportunità di liberarsi dalla propria armatura e consegnarsi fallibile, tenero, mortale, all’amore dell’umanità che gli gravita attorno. Un guerriero d’altri tempi, un guerriero che questi tempi farebbero meglio a resuscitare.

Pin It