PRATO. Leggetevi il libricino di sala fornito dal Metastasio (è sul bancone alla destra della biglietteria), prima di assistere allo spettacolo, o portatevelo a casa, quando rientrate: non è un consiglio, ma un suggerimento che vi tornerà utile, se ascoltato. Altrimenti, di questo Decamerone 2.0 (in scena ancora stasera, 27 ottobre, alle 19,30 e domani pomeriggio), ambiziosa produzione locale, vi sfuggirà certamente qualcosa, qualcosa di importante. La rilettura che ne fa Letizia Renzini, regista, ideatrice e videomaker, è parecchio audace, psichedelica, dark, anche se con tinte decisamente freak, traslata da un piano puramente semantico ad altri, sette secoli prima, semplicemente incontemplabili perché nemmeno lontanamente immaginabili: danza, pittura, musica, tridimensionalità, ma è una corretta, oltre ogni più lecito lirismo, contestualizzazione del testo, perché la peste che falcidiò Firenze nel 1347 è la stessa, di dimensioni mostruosamente più grandi, seppur incruente, che sta decimando, quotidianamente, la popolazione internettizzata, collegata, rapita dalle piattaforme sociali e dimenticata dalle più naturali, elementari, genuine passioni.

Però non è uno spettacolo teatrale nel senso canonico del termine; lo scriviamo per dovere di informazione, soprattutto rivolto allo zoccolo duro degli abbonati, la fascia anziana che riempie le poltroncine della platea, che sono quelli esclusi dalle nuove querelle, che sono quelli che si sono guardati negli occhi, accarezzati, che si sono stretti le mani e che hanno lasciato in dote, ai loro cari, case vecchie, ma ancora vivibili, se ristrutturate e soprattutto un patrimonio incommensurabile di affetti veri, dimostrati e soppesati durante una vita intera. Quelli, appartengono alla generazione ultima dei vivi, quella che ha preceduto quella degli zombi, convinti che vivere, ormai, voglia unicamente dire basta che lo sappiano gli altri; gli esclusi e per forza inassimilabili sono quelli che hanno ormai abdicato all’idea che i loro nipoti porteranno i loro nomi, tanto per banalizzare un esempio comunque esaustivo. La morte e la disperazione narrate da Giovanni Boccaccio nei dieci giorni di rifugio fiesolano e descritte dalla voce fuori campo di Monica Piseddu (nella foto; una delle migliori interpreti del teatro 2.0, ma perché infaticabile studiosa di tutto quello fatto prima, cioè 1.9, 1.8, 1.7 e a scendere) si materializzano nella deformazione, magistralmente rappresentata, dai corpi malati e avvinghiati dal dolore di Marina Giovannini (coreografa), Jari Boldrini, Maurizio Giunti e Lucrezia Palandri, osservati speciali di Virgilio Sieni, in platea, e grazie alla crooner Theodora Delavault, che descrive gli effetti del nuovo morbo sulle musiche di Yannis Kyriakides, effettuate dal vivo dalla chitarra di Andy Moor. Ai lati della gigantografia luminosa, che sovrasta, a sua volta, una cornice nella quale trova spazio tutto quello proiettato e sulla quale vanno in onda disegni, cartoon, documentari e meravigliosi piani sequenza tra il reale, il fisico e l’immaginabile, Lore Binon, Monica Piseddu e Monica Demuru collegano, con un elastico che si sottende per lunghi sette secoli, la vita pestilenziale ai tempi di Boccaccio e quella odierna, scientificamente evoluta, ma comunque straziata da nuovi virus, che la rendono incredibilmente vulnerabile, tanto da far sentire il bisogno ai pochi incolumi e immuni di studiare, per capire come si possa guarire, le panacee adottate, allora, dai cortigiani medievali. Un ponte oggettivamente complicato, che si svela con inesorabile inesorabilità agli spettatori più anziani e con cinica drammaticità a quelli più giovani, quelli che stanno inconsapevolmente inoculando, con impressionante superficialità e complicità, i germi di questa nuova pestilenza: una deformazione dell'amore, una falsa esaltazione della solitudine, una devastante videopatia che allontana, per sempre, con un click, la testa, il cuore e la carne dalla terra.

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